Oggi, con esemplare chiarezza, è Marco Revelli che scrive perché il ministro dell’interno non può dire e fare impunemente ciò che vuole. In effetti, non si tratta solo di fermare “il Truce” – “che è un razzista, uno xenofobo attivo, e un furbo fesso” – come lo definiva Giuliano Ferrara il 30 luglio 2018, ma un intero processo che abbiamo già visto o letto nella storia italiana di quasi un secolo fa. (Grassetto e evidenziazione sono miei.)
Un ministro dell’interno che delinque è un oltraggio per il proprio Paese. Un segno di vergogna che ci accompagna ovunque andiamo. Un ministro dell’interno che oltre a delinquere irride la giustizia del proprio Paese, dichiara di infischiarsene dei giudici e promette di reiterare il reato, è qualcosa di peggio. È una sfida vivente alla nostra democrazia e alla Costituzione che la garantisce. Una sfida che deve essere accettata e vinta, pena la caduta irrimediabile in un limbo della civiltà senza uscita.
Forse Matteo Salvini fa il gradasso perché sa che la sua banda lo tutelerà in Parlamento, che con la complicità della sua maggioranza di governo si salverà dal giudizio del Tribunale dei ministri. Possibile. Anzi probabile. Ma sappia che prima o poi ci sarà una Norimberga. Che quei crimini contro l’umanità, consumati o minacciati, non resteranno ingiudicati e impuniti, quando l’umanità ritornerà in sé, e il consenso degli accecati non basterà più a far da scudo agli specialisti del disumano.
Non sono solo i 177 della Diciotti, sequestrati come fossero un carico di bestiame e segregati contro la loro volontà e contro ogni principio politico e morale; e nemmeno i 47 della Sea Watch messi a rischio della vita per un basso calcolo politico e elettorale. Nel conto ci sono anche i 100 ricacciati indietro dal «moderato» Conte, il devoto di padre Pio che ha fatto il miserabile miracolo di spedire nelle piccole Auschwitz libiche chi dichiarava di preferire morire che ritornare in quell’inferno, e che pure pretende di aver compiuto un atto di beneficenza.
Né possono chiamarsi fuori i galoppini 5 Stelle, quelli che gridavano «Onestà Onestà» e ora nicchiano e tacciono sull’immunità parlamentare per quello che ha stracciato il diritto positivo e quello naturale, violando Costituzione e convenzioni internazionali. Per tutto questo i colpevoli dovranno pagare il proprio prezzo alla giustizia, perché non c’è ragione politica o Ragion di Stato che tengano: l’argomento di chi sostiene che tutto ciò rientrava nel campo della discrezionalità di governo è ridicola, come se si vivesse ancora nell’epoca dell’assolutismo, quando il sovrano era legibus solutus e non si fosse ancora affermato lo Stato di diritto, dove un reato – tanto più se penalmente grave come il sequestro di persona o la messa a rischio della vita di decine di innocenti – resta un reato, anche se commesso dal titolare del potere.
Il cerchio perverso dell’abuso di potere va spezzato. Perché se l’ostentazione plateale della brutalità non viene sanzionata, diventa virale. Contagiosa come una febbre maligna. Quanto accadde all’origine del fascismo insegna. Se restasse impunita otterrebbe una legittimazione che apre al consenso.
Per questo si impone, oggi, una mobilitazione eccezionale, all’altezza della gravità dei tempi. L’appello «Non siamo pesci» affinché venga immediatamente istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi in mare è un primo passo importante. Un’occasione – un dovere – per tutti di schierarsi. E oltre l’appello la presa di parola, in ogni ambito della società si operi, dai media alle professioni, dall’università ai tribunali, dall’associazionismo alle realtà territoriali e di lavoro.
(il manifesto, 26 gennaio 2019)
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