E’ passato un mese dalle elezioni del 4 marzo e si comincia a leggere qualche analisi non superficiale e con qualche riferimento al processo storico.
Riporto l’intervista lasciata da Rossana Rossanda al suo vecchio giornale, il manifesto, al quale riserva anche qualche frecciata. Vista la densità del testo non faccio evidenziazione alcuna.
Rossana Rossanda: «Non dobbiamo semplificare il nuovo caso italiano»
di Tommaso Di Francesco
«A dir la verità, gli interrogativi e le domande che proponi meriterebbero un libro. Del resto la mia idea del manifesto era già negli anni ‘80 del secolo scorso che dovesse essere un laboratorio nel quale coinvolgere alcune persone appunto attorno ai temi principali». Così inizia la nostra intervista a Rossana Rossanda.
Il risultato elettorale vede l’affermazione di due forze politiche «antisistema», il M5 Stelle «populista giustizialista» a Sud e nella coalizione di destra, la Lega, populista-razzista a Nord. Che rischio vedi?
Non credo che il maggior disastro sia la separazione fra l’Italia del nord e quella del sud, per altro non nuova. La cosa più grave è che l’Italia non è mai stata cosi totalmente a destra come dopo questa elezione. In particolare, c’è stata una vera e propria distruzione di una delle sinistre europee più importanti.
Nel 1989, Achille Occhetto ha praticamente accettato la proposta di Craxi sulla totale colpevolizzazione del partito comunista italiano, la cui identità si poteva invece seriamente difendere, anche grazie a una specificità che non si è mai smentita, e che rendeva difficile il suo rapporto con gli altri partiti comunisti, come quello francese.
Non giova certo adesso l’insistenza sul tema «non rimane che un mucchio di macerie», sul quale anche il manifesto è stato assai indulgente.
È mancata una lettura della «società rancorosa», come diceva l’ultimo rapporto Censis? E’ la conseguenza di una visione dell’Europa subalterna alla logica monetaria e con il vincolo di bilancio finito in Costituzione?
Mantengo la tesi che proprio gli stessi dirigenti del partito comunista hanno mandato alle ortiche la tematica teorica e politica, sulla base della quale si sarebbe potuto fare, e si potrebbe ancora fare, una analisi effettiva dei processi che hanno investito l’Italia da ormai quasi un secolo. Il risentimento espresso dal voto, come osserva già il Censis, si basa in parte anche su questa incapacità di analisi.
Come pensi si possa rimettere al centro la lotta per e sul lavoro, di fronte a una così diffusa frantumazione del lavoro stesso (figure professionali difformi, geograficamente sparpagliate ma anche culturalmente e produttivamente isolate); con l’estensione del precariato ad ogni livello? Il proletariato così come l’abbiamo conosciuto non esiste più, eppure la sua diffusione nel mondo non è mai stata così grande. Come leggere questa disparità tra espansione numerica e azzeramento nella consapevolezza politica?
Non penso che una lotta per difesa del lavoro sia messa in difficoltà da una sua particolare frantumazione. Questa esiste, ma è poco più che fisiologica: si potrebbe ripartire, se ne se avesse la voglia, dalla crisi del fordismo e dalla analisi gramsciana della sua natura e fine. Ci sono anche le analisi più recenti di Luciano Gallino, che sarebbero di grande utilità (e spiegherebbero anche alcuni ragioni di fondo dei flussi elettorali).
Insomma, la vecchia esclamazione di Brecht: «Compagni, ricordiamoci dei rapporti di produzione» si potrebbe e si dovrebbe realizzare ancora oggi. Ma dovremmo fare i conti con la liquidazione del marxismo avvenuta nell’ultimo mezzo secolo, e alla quale neanche il manifesto si è realmente opposto.
Luigi Pintor già all’inizio del 2003 scriveva che «la sinistra che abbiamo conosciuto non esiste più». Che cosa rimane di quello che ci ostiniamo a chiamare sinistra? Il riformismo antioperaio di Matteo Renzi (v. Jobs act) è davvero finito con il disastro del Pd? O il neoliberismo vive in altre dimensioni? Quanto quelle macerie impediscono la ricostruzione necessaria?
Le parole di Pintor valgono purtroppo ancor oggi: fra l’altro non credo che si possa definire riformismo anti operaio quello di Matteo Renzi, ammesso che la definizione abbia un senso. Renzi ha semplicemente obbedito alla maggioranza liberista che ha investito l’Europa e ha trovato nella classe dirigente italiana soltanto degli accordi: basta pensare alle scelte di Marchionne sulla Fiat.
Perché in Italia non c’è una sinistra legata ai nuovi movimenti anticapitalistici, che abbia forza anche numerica e capacità di convinzione – fatte le debite differenze tra queste formazioni – come Podemos, Linke, Syriza?
Non mi pare che la nostra situazione sia analoga a quella che ha dato luogo a Podemos, alla ormai vecchia Linke e a Syriza. Una traccia interessante sarebbe un aggiornamento molto preciso della situazione economica italiana alla tematica proposta dall’Unione Europea.
I vincoli dell’Unione europea «reale» hanno ridotto i poteri e i processi democratici, di fatto cancellando spazi fondanti di democrazia e obiettivi di trasformazione sociale. L’Unione europea ridotta a sola moneta unica è ancora il campo per una democrazia avanzata e progressiva?
Credo che bisognerebbe riflettere sul fatto che più che aggredire un comunismo che in Europa occidentale non c’è mai stato, quel che è stato aggredito dopo la caduta del muro di Berlino è stata una certa interpretazione keynesiana che ha caratterizzato le costituzioni europee post-belliche.
Ne ho scritto qualcosa l’anno in cui ho lasciato il giornale. Credo proprio nel mese di settembre.
Trump è arrivato alla guida degli Stati uniti perché premiato dalla promessa populista del protezionismo. Ma «l’unica potenza rimasta» non lo è più, né economicamente né politicamente e rischia di assumere il primato di una ideologia di scontro, isolazionista e razzista. Che resta delle ragioni democratiche dall’Occidente neoliberista?
Per quanto riguarda la vittoria di Trump e la sua localizzazione, un buon libro mi sembra Populismo 2.0 di Marco Revelli. Il problema è pero che anche in Europa spunti populisti nascono dappertutto e non hanno la stessa origine. In modo particolare sono nati nell’Europa dell’Est, Cechia, Ungheria e Polonia, dove sembrano configurarsi come «sistemi».
Sarebbe interessante che il manifesto osservasse quali sono i loro temi principali, diversi da quelli degli Stati Uniti.
È possibile, con contenuti innovativi e per una possibile ricostruzione – a partire dall’analisi del 1989 – , insieme attivare movimenti intorno a nuovi temi di classe internazionali?
Sarebbe indispensabile un lungo lavoro comune, anche a livello internazionale, sulla evoluzione economica dell’Europa: per quanto riguarda Trump, non abbiamo granché da dire, e soprattutto mancano rapporti comuni con le posizioni del Partito democratico americano, molto diverso dalle posizioni europee.
In Italia si discute di un soggetto politico, dopo lo smacco elettorale e lo scarso risultato delle liste a sinistra, LeU e Potere al popolo. Anche alla luce della deriva dell’89, della fine Pci, della riduzione della politica a tecnicismi – per i quali l’affermazione del centrista Macron in Francia rappresenta forse l’ultimo significativo e vincente episodio – fino al protagonismo rottamatorio dell’era renziana anch’essa rottamata. Cosa pensi della discussione in corso?
La discussione mi pare inadeguata. Bisognerebbe iniziare dal fatto che il risultato elettorale non è stato inaspettato, bensì una logica conseguenza delle posizioni liquidazioniste del Partito Democratico e delle conseguenze della totale sparizione dei partiti socialisti. L’affermazione di Macron in Francia è un semplice adeguamento alla scelta maggioritaria dell’Unione europea, e in particolare delle Cdu tedesca.
Dove stanno sfruttamento e sofferenza, dovrebbe esserci «rivolta» o almeno costruzione di una’alternativa. Non ne vedo tracce consistenti in Italia: le posizioni più interessanti sono quelle di una parte del sindacato (la Fiom), ma il compito di un partito è diverso e politicamente molto più radicale.
Quanto alle liste come LeU e Potere al Popolo, mi sembra assai ingeneroso valutarne il risultato, dopo una breve campagna elettorale e sotto il diluvio dei populismi o l’estrema destra della Lega: per iniziare una ricostruzione, occorrerebbe un atteggiamento molto più seriamente analitico e unitario.
E probabilmente questo esigerebbe anche un esame che non si è fatto sull’andamento dei cosiddetti «socialismi reali». Si tratterebbe di fare quello che Stalin ha impedito, e cioè un bilancio serio del leninismo alla fine della vita di Lenin, nei tentativi teorici del conciliarismo, che in Italia hanno avuto un seguito soltanto dopo il 1972.
Insomma, non è possibile risparmiarsi un lavoro molto ravvicinato, che in italia non è stato fatto nell’ultimo mezzo secolo. In questo lavoro sarebbe da esaminare anche al di fuori di certe facilità «la linea togliattiana». Ricordo che con qualche esortazione ad andare in questa direzione non ho avuto fortuna neanche nel nostro giornale.
(il manifesto, 5 aprile 2018)
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