Riproduco l’intervista a Giorgio Galli, definito “decano della politologia italiana”, da il manifesto di oggi. (Le evidenziazioni sono mie.)
Al referendum del 4 dicembre votare sul governo «sarà inevitabile», spiega Giorgio Galli, decano della politologia italiana, docente di dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, studioso del «bipartitismo imperfetto» della Prima Repubblica quando Dc e Pci si confrontavano senza che questo producesse alternanza. Negli ultimi anni, fra l’altro, ha analizzato le riforme di Renzi (in L’urna di Pandora delle riforme, con l’avvocato Felice Besostri). Dunque si voterà su Renzi «innanzitutto perché lui stesso ha intrecciato la riforma e il suo futuro di presidente del consiglio. Per questo gli italiani voteranno più su sui mille giorni del governo che sulla riforma».
Il suo giudizio sui mille giorni di Renzi qual è?
Non molto positivo. È riuscito a fare molto meno di quello che aveva promesso. L’economia resta stagnante. Oggi sfida l’Europa come un euroscettico ma è un’oscillazione notevole rispetto al forte investimento di credibilità che aveva fatto sull’Europa.
Dal famoso semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione oggi siamo allo sbianchettamento delle bandiere europee.
Nella prima parte della campagna referendaria ha sostenuto che a differenza dei suoi predecessori aveva ottenuto importanti risultati in Europa. Ora invece rinuncia a questo aspetto e mette in evidenza la forza con cui avanza le richieste.
Renzi dice: il Sì è cambiamento, il No è conservazione.
È il contrario. Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Si è cominciato con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: una toppa per tenere in piedi un sistema. Poi le prime larghe intese con tutto il centrodestra, le seconde con una parte del centrodestra. Tutti tentativi di rappezzare un sistema in grave difficoltà. L’ultimo di questi tentativi è il governo Renzi. Rafforzarlo significa rafforzare la continuità di questi rammendi. Il No, al contrario, renderà difficile mettere nuove toppe.
La vittoria del No rappresenta la possibilità di rompere la continuità?
Il No è la possibilità che i giochi si riaprano. Con un trauma, ma piccolo. Del resto ormai in tutti i paesi europei si esprime, in diversi modi, esigenze di cambiamento molto radicali.
Renzi invece oggi si presenta come una forza antisistema. Dice: «Il sistema è tutto schierato per il No».
È singolare che un governo si presenti antisistema. E comunque è evidente il contrario: dalla Confindustria alle banche fino all’ambasciatore americano, il sistema è pesantemente schierato dalla parte di Renzi.
Però non tutto il No è «antisistema». Il No di Berlusconi, ammesso che alla fine voti No, è chiaramente di altra natura.
Berlusconi sa, e dal suo punto di vista è giusto, che una vittoria del No lo metterebbe in una posizione di forza quando si ricostituirà un qualche tipo di Patto del Nazareno, cosa che accadrà in ogni caso. Ma la vittoria del No va al di là del contingente interesse tattico di ciascun protagonista. Sarebbe un’altra prova nella sfida al potere economico, abbastanza in linea con quello che succede in Europa, anche se con caratteristiche diverse.
Brexit è considerata una vittoria del vituperato populismo.
La democrazia rappresentativa è in crisi ovunque, in Europa e non solo. E non a causa di alcuni anni di populismo ma a causa di decenni di svuotamento del potere politico da parte del potere economico. Oggi il problema delle democrazie occidentali sono le 500 multinazionali che governano il mondo, non i populismi. E il piccolo trauma sarebbe prenderne atto. Finché il potere politico sarà quasi impotente di fronte al potere economico la continuità è garantita. Il No è la critica alla continuità. Una possibile sfida al sistema.
Negli Usa Trump è una sfida al sistema?
Al di là dei protagonisti, negli Usa come nella Brexit si è espresso il voto degli svantaggiati della globalizzazione. E a questa crisi c’è una declinazione italiana. Ne ho appena scritto in Scacco alla superclass (Mimesis Edizioni, ndr), ovvero scacco a quel mondo che si riunisce a Davos non per decidere i destini del mondo – lo fa in altri luoghi – ma per celebrare il proprio ruolo. Nella postdemocrazia il potere economico ha preso la supremazia su quello politico. O la democrazia rappresentativa affronta il potere economico o è destinata a decadere.
In Italia comanda la finanza, non il governo Renzi?
Nella stessa misura dei governi che lo hanno preceduto. La crescita del populismo è l’espressione di questa crisi. Che si affronta solo se il controllo dei cittadini si estende dall’area della politica a quella dell’economia.
È l’elogio della cittadinanza a 5 stelle?
I 5 stelle sopravvalutano la democrazia elettronica. Il sogno di Casaleggio in fondo era una democrazia diretta fatta di tecnologia informatica. Invece fare in modo che i cittadini si riapproprino della loro condizione è molto più complicato.
(il manifesto, 17 novembre 2016)
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