Su la Nuova Venezia del 3 marzo (p. 41) è comparso un articolo di Emilio Randon su una vicenda intellettuale e scientifica che a suo tempo m’interessò molto, anche per ragioni di lavoro. La vicenda ha due protagonisti, Enzo Rullani e Bruno Anastasia. Il primo è uno dei più produttivi docenti universitari locali (ha insegnato molto tra Venezia e Udine), il secondo è da sempre un analista della vita economica veneta nonché nostro compaesano, in senso lato.
Il giornalista li ricorda dapprima “entrambi periferici all’Accademia”, anzi come coloro che “si opposero ai riflessi d’ordine di un’intellighenzia accademica formatasi sulla vulgata marxista”. Poi afferma che “Rullani e Anastasia devono solo difendersi da un eccesso di compiacimento” (così scrive!). Ma cosa fecero di tanto bello? Scrissero a quattro mani La nuova periferia. Saggio sul modello Veneto, pubblicato nel lontano 1982, che era una descrizione in tempo reale dei cambiamenti in atto nella struttura produttiva, quindi sociale, veneta. Ebbene, ammettiamolo, furono “scientifici” (diciamo così) mentre altri “resistevano” (come scrive il giornalista) , quindi non vedevano. Ma adesso?
«Ci siamo accorti in ritardo e con qualche rimpianto del potere dissipativo dello sviluppo avviato a Nordest. Erodeva risorse, territorio, operosità, infrastrutture.»
Cazzo! Ho sobbalzato: “potere dissipativo dello sviluppo”! E’ un’espressione mica da poco. Ma di seguito, “Anastasia fa la somma di torti e ragioni”, scrive il nostro giornalista, anzi riporta le sue parole: «avevamo visto giusto, il modello era forte, è cresciuto». E quelle di Rullani: «sono passati 30 anni, la realtà è andata dove noi dicevamo». Ho capito, ho capito, ma allora è ancora tutto giusto, tutto bello, tutto previsto? Ma no, purtroppo:
«Oggi abbiamo a disposizione una forma di flessibilità negativa, diciamo che finora è stata la non-organizzazione che ci ha reso flessibili. Ciò può diventare una iattura. C’è materiale per un nuovo patto per lo sviluppo. Bisogna imparare a vivere e lavorare in rete, adottando oltre alla propria identità anche una visione dei problemi e dei traguardi da raggiungere.»
Così finisce anche l’articolo, piuttosto strano. Sembrava scritto per esaltare e finisce con un’affabulazione da lettino psicoanalitico (“dottore, sono felice ma sento che devo cambiare completamente vita”). Ma forse servono più sedute, forse è ancora un problema di linguaggio, di termini usati, forse. Magari andando avanti non si penserà solo alle imprese, ai fatturati, al PIL. Magari più in là non si chiamerà più ‘sviluppo’ solo la crescita del PIL. Speriamo di non dover attendere altri trent’anni per la prossima seduta.