L’equazione italiana, cioè il rapporto tra le variabili indipendenti ed il risultato sociale e politico, si può esprimere con la funzione p= f (a,m), dove p= politica, a= affari e m= mafia.
Questa funzione è purtroppo arcinota e quotidianamente confermata, come sta progressivamente emergendo anche dall’inchiesta su Mafia Capitale. In realtà sono eventi che hanno radici profonde e in questioni storiche che non hanno mai avuto soluzioni di continuità. Anzi, hanno avuto i perfezionamenti criminali tipici di un blocco di potere antico ma sempre capace di rinnovarsi.
L’unica vera novità, dopo le vicende dell’Expo e del Mose, è la progressione in cui emergono i casi locali, sembra proprio che il sistema non regga più, non riesca più a nascondersi.
Tuttavia, se tutto è arcinoto, le analisi giornalistiche sono perlopiù banali e “locali”, relegate a Roma. Così, riporto il miglior articolo letto finora, le sottolineature sono mie.
Quando Berlinguer annunciava la palude
di Alberto Burgio
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge. (…)
In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.