Sull’Avvenire, il giornale della CEI, compare oggi un’intervista ad Andrea Zanzotto, il grande poeta che va per i novant’anni. Sono rimasto un po’ sorpreso di trovare tanti riferimenti a Dio, anzi quasi solo quelli, ma conoscendo i preti italiani ed il loro assillo a scoprire grandi convertiti (è ricorrente perfino un Gramsci morto con l’estrema unzione) non escluderei abbondanti manipolazioni al reale contenuto dei colloqui.
Il ‘nostro’ Zanzotto c’è infatti solo all’inizio, quando parla di zie e nonni, e nella battuta finale. Chi ne conosce l’opera sa che il poeta di Pieve di Soligo ha sempre cercato a modo suo la trascendenza e per non interpretarlo troppo riporto sue parole di soli dieci anni fa:
«Anche a me càpita, saltuariamente, che il raggio di luce incontri lo stagno, come in Böhme, e intravveda Dio. Il problema è che il metafisico è al di là della nominabilità. La Scrittura dice: “Non nominare Dio”, e posteriormente aggiunge l’avverbio “invano”. Io non sono stirneriano, non sostengo di essere l’eccezione del Nulla. Quello che a cui faccio riferimento è il tempo: abbiamo alle spalle un passato, davanti abbiamo un futuro, noi siamo un tempo che si inabissa perché non può autonominarsi. Se devo dire in cosa credo, penso che la formula più adatta sia: una trascendenza nell’immanenza.»
‘Trascendenza dell’immanenza’: ecco, questa formula mi piace. Se poi qualcuno pensa che si tratti di metafisica, buon per lui.