Sempre a caldo, la riflessione di Marco D’Eramo (da Micromega, grassetto ed evidenziazioni sono miei).
Piano B cercasi disperatamente. Così potrebbe riassumersi la reazione della stampa mondiale all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati uniti. L’ansiosa domanda “E adesso?” traspare in tutti commenti, dall’inevitabile, prevedibile “allarme per l’inarrestabile avanzata del populismo mondiale”, ai liberals come Krugman che si strappano i capelli per non aver capito nulla del paese in cui vivono, allo “scenario dell’orrore” di cui parla la Süddeutsche Zeitung, allo sgomento dei mercati finanziari, all’amara, e sempre più attuale constatazione che è più facile eleggere un candidato nero piuttosto che una presidente donna.
L’ansia è mascherata da considerazioni più o meno dotte sulla rivincita dei bianchi maschi senza titolo di studio (ma non dovevano essere un gruppo in fatale declino demografico?), sull’astensione dei neri e degli ispanici che sono venuti a mancare a Hillary Clinton, sulla disaffezione dei giovani progressisti che avevano militato per Bernie Sanders, sull’atteggiamento dei media, che sotto l’ipocrisia della par condicio, o del cerchiobottismo, hanno picchiato molto più su Clinton che su Trump, sulle donne che hanno sì preferito Clinton ma non abbastanza da compensare le perdite nell’altro genere. E così via. Ma tutte queste sapienti analisi nascondono solo l’attonito stupore del padrone che per la prima volta viene disubbidito dalla servitù riottosa e che si chiede come far rientrare quest’insubordinazione.
Il problema per i padroni è che la servitù può diventare intrattabile, imprevedibile, così volgare, così “impresentabile”. Il problema è che non ci sarà nessun piano B se continua a prevalere la narrazione della politica mondiale che ci ha afflitto in questi ultimi dieci anni e se qualunque forma di dissenso, di malcontento popolare, di volontà di cambiamento viene catalogata sotto il marchio “populista”: perché, come si sa, le narrazioni creano e inverano la realtà che pretendono di descrivere. Si può dire che la partita fosse giocata fin da quando i pundits avevano equiparato Sanders e Donald Trump sotto la comune etichetta “populista”, quando la distanza tra i due è intergalattica: uno voleva il servizio sanitario nazionale, l’altro voleva abbattere l’Obama care; l’uno voleva tassare le banche, l’altro vuole abolire la tassazione, l’uno voleva ridurre le spese in armamenti, l’altro vuole costruire un muro con il Messico…
Non importa, perché per la nuova ortodossia politica il mondo non è più diviso tra destra e sinistra, bensì tra discorso legittimo e discorso illegittimo: legittimo è solo il discorso praticato dalle élites e dai loro portavoce; illegittima è qualunque voce che metta in discussione che la meravigliosa vita offertaci dal capitalismo mondiale globalizzato sia la migliore delle esistenze possibili, versione 2.0 del credo panglossiano. Questa illegittimità fa di tutt’erba un fascio e mette insieme il malcontento per la disoccupazione con il razzismo contro gli immigrati, l’ansia per la precarietà del lavoro con la fobia degli omosessuali, l’essere sfrattati con il patriarcato machista, il desiderio di una società più sociale con i rigurgiti sciovinisti.
In realtà gli elettori occidentali somigliano sempre più a topolini da esperimento cui vengono offerte solo due opzioni obbligate, una in un corridoio “di centrodestra”, e una in un corridoio “di centrosinistra”: scelgono la prima e sbattono contro una parete invisibile, allora la volta successiva scelgono la seconda e risbattono di nuovo contro la stessa parete invisibile e così via fino a tramortirsi: visto che le politiche di “centrodestra” e “centrosinistra” sono identiche tra loro e che non è offerta alcuna alternativa, l’unica scelta possibile è mangiare la minestra o saltare la finestra, o, come si dice in inglese “this way, or the highway”. E finché l’unica prospettiva offerta alle nuove generazioni sarà un fantastico avvenire di camerieri da McDonalds, di pony express, di centralinisti di call center senza assistenza sanitaria, senza pensione, senza posto fisso, senza ferie pagate, senza permessi maternità o malattia, come non vedere che la risposta sarà uno sberleffo, una scoreggia, un colossale “Cicciolino”, un cosmico bras d’honneur (dito medio al cielo)?
Già una volta, nel secolo scorso, di fronte a una prolungata, drammatica recessione economica, lo sbarramento a qualunque prospettiva sociale portò a dittature “keynesiane” (il programma di autostrade hitleriane, le paludi pontine mussoliniane). Non è vero che quando la storia si ripete, la prima volta è sempre tragedia (nazismo), la seconda è farsa (trumpismo). La seconda volta può essere una tragicommedia, cominciare cioè come una barzelletta e finire in catastrofe.
La prospettiva di quattro anni (se non di otto) di Trump è un incubo. Ma quest’incubo è stato preceduto da un’involuzione senza precedenti del discorso legittimo, che ormai sdogana il più ostentato disprezzo per il volgo, la plebaglia, inneggia all’oligarchia (vedi il candore di Eugenio Scalfari). È stato preceduto da un attacco senza precedenti al popolo. E non ci si può lamentare se la plebe ha reagito scostumata. Verrebbe da dire “ben gli sta”, se il prezzo non dovessimo pagarlo anche noi.
Non è infatti per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Žižek che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni. Ma certo che se alla crescente disperazione popolare non viene data altra voce se non quella sguaiata di un Briatore versione Usa, se al bisogno urgente di cambiamento non verrà data altra risposta se non la vecchia demonizzazione dell’Altro, allora di sicuro ci toccherà vivere in “tempi interessanti”, che è quel che i saggi cinesi non auguravano a nessuno.
PS L’ultima beffa è che, se riaprire una nuova guerra fredda sembrava l’unica possibile via di uscita dalla recessione mondiale, quest’esito procura indubbiamente una maligna soddisfazione a Vladimir Putin.
(Micromega, 9 novembre 2016)
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