Sul tema della maternità surrogata noi italiani siamo un po’ in ritardo, nella prassi ma anche nella discussione, tant’è che lo chiamiamo “utero in affitto”, espressione che suona piuttosto di disprezzo. Qui da noi si legge proprio poco di quanto si fa nel mondo. Così riproduco un articolo del manifesto che con un’intervista racconta un caso specifico, con motivazioni, implicazioni legali, tecniche e complicazioni del caso. (Metto in evidenza una risposta.)
Intervista. Le ragioni che hanno spinto una donna americana a decidere di partorire una bimba per una coppia che non può avere figli
C’è un fantasma che ieri si aggirava per il Circo Massimo. È lo spauracchio che brandiscono le famiglie «canoniche», la minaccia che mina i pilastri della società italica maschia, ordinata ed eterosessuale. È il male assoluto che temono uomini e donne di destra e di sinistra, eterosessuali e anche molti e molte omosessuali. Ha la faccia di Kathy, trentanovenne statunitense, acconciatrice ed estetista, due figlie di 9 e 6 anni, un marito italiano. E un sorriso bellissimo. Lei ha scelto di essere una gestante per altri, una madre surrogata. Le tre parole che secondo lei definiscono le persone che decidono di fare la sua scelta sono «altruismo, orgoglio, regalo».
Perché ha deciso di prestarsi a portare in grembo il figlio di qualcun altro?
C’è una cosa che unisce me e mio marito: la voglia di aiutare gli altri, di restituire alla società qualcosa in cambio di tutte le opportunità che abbiamo ricevuto dalla vita. Ognuno ha scelto di farlo a modo suo. Essere gestante per altri è una cosa speciale che possono fare solo le donne. Sapevo che non desideravamo altri figli per noi. L’esperienza delle mie gravidanze mi era piaciuta. Durante la mia vita ho conosciuto moltissime coppie frustrate per le loro difficoltà ad avere figli. E ho un’amica del liceo che lo ha fatto, leggere il suo blog mi ha ispirato.
Che bisogna fare per diventare gestanti per altri?
Io mi sono rivolta a un’agenzia. Negli Stati Uniti ce ne sono decine. Io ne ho scelta una che lavorava localmente con madri e coppie del Texas e gestita da una donna. Bisogna fare domanda, superare una serie di esami psicologici, fisici ed economici. Ovviamente vogliono che tu sia fisicamente sana, ma anche che sia una persona equilibrata, capace di saper gestire le difficoltà – a volte ci vuole del tempo per rimanere incinta -, di saperti mettere in relazione con gli altri – perché dovrai mantenere un rapporto con i futuri genitori durante tutto il processo -, che abbia già avuto figli, e che non abbia alcuna difficoltà finanziaria o bisogno di denaro.
Come ha incontrato i futuri genitori?
La prima coppia che ho incontrato era una coppia eterosessuale. All’inizio, ti ci fanno parlare per telefono, poi ti incontri da qualche parte per chiacchierare. Ma con quella coppia non c’è stata chimica. Il marito era simpatico, ma la moglie era troppo ossessiva. Avevo l’impressione che avrebbe voluto controllare la mia vita, quello che mangiavo, quando riposavo. Così ho chiesto all’agenzia di farmi incontrare una coppia gay, perché mi sembrava che così nessuno avrebbe voluto amministrare il mio corpo. Per me è importante stabilire una relazione di fiducia: fai quel che è giusto, ci fidiamo. Dopo una settimana ho incontrato questa coppia di papà: tra l’altro, uno dei due è italiano, all’agenzia sembrava l’accoppiamento ideale con noi. Una donatrice anonima ha fornito gli ovuli, ed è nata una bella bambina 11 mesi fa.
Lo rifarebbe? Com’è stata l’esperienza?
Dal punto di vista emotivo e mentale, bellissima. Fisicamente invece ci sono state delle complicazioni gravi alla fine della gravidanza. Tanto che è finita con un’isterectomia, per cui non lo potrei rifare, no.
Un trauma, quindi.
Ci siamo spaventati quando abbiamo saputo che la placenta era cresciuta fuori dall’utero e che questo avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita. Mi hanno costretto al riposo assoluto. È durata tre settimane, fino al parto che è stato anticipato per questo. C’è stata una convalescenza più lunga che per un cesareo normale, ma si sono tutti presi cura di me, anche i papà della bimba. Io davo loro il latte – anche se questa è una scelta libera di ciascuna gestante – e loro mi portavano i pasti in ospedale. Ma, spavento a parte, l’esperienza è stata comunque molto bella.
Come lo ha spiegato a suo marito e alle sue figlie?
Con mio marito è stato facile: condivide il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno. Con loro anche: ho dato loro una spiegazione molto concreta. Farò crescere un bimbo che non è mio per una famiglia che non lo può fare. Alle poche domande che hanno fatto, abbiamo risposto con tutta la precisione necessaria. Abbiamo anche spiegato la scienza che c’è dietro, che un dottore ha messo assieme le cellule e le ha messe dentro di me. Ora la adorano, e la trattano come una cuginetta.
Quindi mantenete i contatti con loro?
Certo. Sono una coppia bellissima, siamo diventati molto amici. C’è un’ammirazione reciproca. Loro, molto affettuosi, mi definiscono addirittura la loro hero. Li capisco, chiunque faccia questo regalo a una coppia sterile diventa il loro eroe.
E gli amici, come hanno reagito?
In generale, bene. Solo una mia amica, il cui marito è stato adottato, mi ha chiesto: perché non adottano invece di ricorrere a questa tecnica? Ma a parte lei, gli unici problemi sono venuti dal lato italiano della famiglia. Hanno fatto un sacco di domande. Sono sicura che non erano del tutto sinceri con me – penso che non abbiano capito davvero tutto il processo, anche se non mi hanno mai criticata apertamente. Ma i silenzi a volte possono essere molto espliciti.
Ci sono molte donne che credono che sia una violenza separare un figlio dalla madre biologica, e che prestarsi a portare il figlio di altri sia una forma di schiavitù femminile.
Mi sembra ridicolo. Non stai separando nessuno dai suoi genitori, non lo penso io e non lo penserà neppure lei quando crescerà. Non perché sia uscita dal mio grembo necessariamente ha a che vedere con me. La sua famiglia lei ce l’ha. Quanto alla schiavitù. Ovviamente, c’è una linea sottile. Sì, sono stata compensata anche io. Ma le dirò una cosa: la fatica non vale proprio i soldi che ti danno! All’inizio devi sottometterti a iniezioni dolorose per dieci settimane. Prendere farmaci e ormoni. Poi la fatica della gravidanza. E magari, come nel mio caso, finisci col rischiare la vita. Nessuna quantità di denaro ti ripaga per tutto questo. Ci saranno persone che lo fanno per soldi, non lo so. Ma la maggior parte delle persone lo fa per altri motivi. Quanto ai soldi, io la vedo così. Se esci la sera e devi prendere una baby sitter, o devi mandare tuo figlio all’asilo, paghi qualcuno per prendersi cura di tuo figlio o tua figlia. Per me è lo stesso per la surrogazione: paghi una persona perché si prenda cura di tuo figlio per nove mesi e per assicurarti che prenda tutte le precauzioni possibili per non fargli del male.
C’è una regolamentazione giuridica per tutto ciò?
Oh sì! Prima ancora di cominciare devi firmare 200 pagine di contratto legale, in cui c’era scritto che io ero solo responsabile di prendermi cura di me stessa. Nel contratto si esplicitava tutto. Per dire, loro avevano l’obbligo di identificare 3 persone di backup disposte a prendere in adozione il bambino nel caso fossero morti in un incidente prima del parto. È tutto molto controllato per proteggere la portatrice, i genitori e anche il bambino.
Sa che in Italia qualcuno ha proposto di condannare con due anni di carcere e un milione di multa chiunque faccia uso di questa tecnica per ottenere un figlio?
Sono basita. Pensa che, nel nostro caso, il papà “principale”, quello che è apparso subito sul certificato di nascita del bimbo, è proprio l’italiano. Ma lo trovo anche interessante. Nella mia agenzia, ho conosciuto una donna che venne dall’Italia e che finse con la sua famiglia di essere rimasta incinta negli Stati Uniti. Tornò a casa con il bimbo, senza raccontare come l’aveva avuto davvero. Mi era sembrato curioso. Ora la capisco molto meglio.
(31 gennaio 2016)
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