Con l’assassinio di tre giovani israeliani a Hebron e le prime immediate reazioni già in atto mentre scrivo, torna di mediatica attualità la questione israeliana/palestinese. Una questione fondamentale del nostro tempo. Unica, ma con molte facce. Internazionale, non regionale. Storica, cioè della storia dell’intero Occidente, non solo attuale. Paradigmatica, della politica e del pensiero strategico. Risolvere questa questione vorrebbe dire passare ad un altro stadio della civiltà umana. In questo blog non è mai stata affrontata, ma presuppongo che i miei quattro lettori ne sappiano almeno quanto me, quindi non la faccio tanto lunga e scrivo in libertà.
Nel cuore dello scorso mese di giugno ho fatto un viaggio di dieci giorni in Israele/Palestina. Un viaggio autonomo, fatto in quattro, preparato da me stesso e qualche dritta d’agenzia, perché interessato da sempre a quel paese. Un viaggio in un posto ricco, di paesaggio e storia, di bellezze e di brutture, di contraddizioni. Essendo senza altra guida umana, oltre agli aspetti paesaggistici ed archeologici, abbiamo avuto modo di cogliere solo con leggerezza, in superfice, alcuni aspetti antropologici e politico-sociali. Però mi è capitato di colloquiare a lungo con un giovane francescano italiano della Custodia di Terra Santa, da cui ho avuto soprattutto conferma delle divisioni profonde, assolute, non solo tra le popolazioni, ma anche tra i numerosi gruppi intellettuali.
D’altronde, anche volendo, sarebbe impossibile non vedere la separazione tra Israele e Cisgiordania, con i check-point stradali, le pattuglie militari nei posti cruciali, i metal detector per visitare aree e musei, il muro divisorio per centinaia di chilometri, il comportamento degli ortodossi ebrei. Mi è capitato perfino di sgridare alcuni bambini palestinesi (non avevano neanche dieci anni), che lanciavano grossi sassi contro automobili parcheggiate sulla Via Dolorosa (la Via Crucis), ben dentro le mura di Gerusalemme. Ho avuto l’impressione netta che l’intifada non sia mai finita o sia già ricominciata.
Mi ero preparato il viaggio per andare in piena autonomia automobilistica e così abbiamo fatto. Prima a Tel Aviv, quindi a Jaffa, Cesarea, Akko (Acri). Poi a Tiberiade, quindi a Cafarnao, tra i resti di Betsaida, il corso alto del Giordano affluente del lago, solo avvistata Gamala (da riprendere) e solo sfiorata Gerico (perché in Cisgiordania, dove ci vuole più calma). Evitato accuratamente Nazaret e visitato invece Betlemme. Quindi lungo il Mar Morto, anche dentro le sue acque inospitali, su e giù a Masada, dentro il suo mito vivente. Per finire gli ultimi giorni dentro le mura di Gerusalemme, nei luoghi sacri ai tre monoteismi, e fuori le mura, nei musei ebraici e tra i quartieri (veramente impressionante Mea Shearim, quello degli ultraortodossi ebraici).
Il viaggio è andato bene. Personalmente ho apprezzato molto anche la cucina palestinese. Ma accendendo la tv in hotel c’erano sempre le facce dei tre giovani studenti, figli di coloni, di cui si aspettava ora per ora il ritorno. Ieri invece ne hanno fatto il funerale.
Ero preparato ad un viaggio particolare, non rischioso, questo non lo pensavo, ma difficile perché in un ambiente con tutte le contraddizioni possibili. Alla fine è stato un viaggio fortemente mentale, un viaggio che non mi pare mai finito, un viaggio che forse ho solo sognato.
Quello che mi è più certo, vero, è che nei prossimi giorni e mesi e anni, Israele/Palestina (non vedo come separarli/distinguerli) saranno al centro di tante cronache internazionali. Speriamo – perché la speranza è di tutti, anche e soprattutto di quelli come me che pensano a programmi positivi e di cambiamento – che in quella zona arrivi qualche nuova illuminazione.
Non servono nuovi profeti, mistici o visionari, servono o bastano uomini di buona volontà, come Yitzhak Rabin (1922-1995) e Yasser Arafat (1929-2004). Sono morti un po’ “forzatamente”? Tutti dobbiamo morire. Quello che non possiamo fare è vivere senza speranza di giustizia e di libertà, non solo per se stessi, ma per tutti.