Analisi del linguaggio dei candidati alla segreteria Pd
L’ultimo numero de L’Indice dei libri del mese (n.12, dicembre 2013), uscito durante le primarie del Pd, pubblica un articolo di Giuseppe Antonelli, docente all’Università di Cassino di storia della lingua italiana contemporanea.
E’ un’analisi del linguaggio dei candidati Civati, Cuperlo, Renzi, attraverso la lettura dei loro libri più recenti. Vi lascio tutto il piacere, senza commenti, se non qualche evidenziazione ed il dubbio del titolo.
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Scritture primarie
di Giuseppe Antonelli
Nel Pd scrivono in tanti. Alcuni, come Veltroni (che le primarie le vinse nel 2007) o Franceschini (che le perse nel 2009) anche racconti e romanzi che l’Indice ha puntualmente recensito. Ma quali libri hanno scritto i tre principali candidati alle prossime primarie per il segretario nazionale? Come li hanno scritti? E soprattutto: cosa si può dedurre dalla loro scrittura rispetto al loro profilo politico (che non sempre sarà necessariamente il sinistro)? Quello che segue è un esperimento di recensione comparata di alcuni libri di Giuseppe Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi pubblicati a partire dal 2009, l’anno in cui Bersani fu eletto segretario.
Bello e impossibile
L’ultima riga del libro più vecchio, Basta zercar di Cuperlo (2009), recita così: “Primavera 2013 (o forse prima): il centrosinistra italiano vincerà le elezioni politiche”. Le prime righe dei libri più nuovi, Oltre la rottamazione di Renzi e Non mi adeguo di Civati (entrambi 2013), elaborano il lutto per la vittoria mutilata: “la sinistra realizza la straordinaria impresa di perdere elezioni politiche che sembravano già vinte” (Renzi); “gli elettori si erano espressi contro la grande alleanza che aveva sostenuto Monti, e se la sono ritrovata” (Civati).
Il libro di Cuperlo, d’altronde, è il più vecchio non solo perché è uscito quattro anni prima, perché parte dal remoto 1921, perché è stato scritto dal più vecchio fra i tre candidati (Cuperlo ha 14 anni più di Renzi e Civati). È il più vecchio perché Cuperlo scrive senza guizzi, mettendo in fila capitoli troppo lunghi per spiegare efficacemente e troppo piatti per raccontare appassionatamente. E anche perché ha un opacissimo titolo dialettale (Cuperlo è di Trieste), che oltretutto rimanda alla fiducia riposta da alcuni vecchi militanti nello statuto del Pci: “xe inutile far polemica col partito… gavemo un Statuto no? E te sa perché el se ciama Statuto? Perché dentro sta-tuto. Basta zercar!”. Come dire: il nome è cambiato, ma il partito è sempre quello (dall’88 al ’90 Cuperlo è stato segretario nazionale della Fgci, la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani). Inutile cercare tanto in giro: fidatevi del partito e tutto si risolverà. Non sarà un caso che nei titoli dei capitoli ci si riferisca spesso a un noi che è da identificare proprio col Pd: “La crisi e Noi”, “Il Nord, la Destra e Noi”, “La Sicurezza, la Destra e Noi”. Ancora oggi, d’altra parte, Cuperlo è l’unico dei tre ad aver inserito il nome del partito nel proprio slogan: “Bello e democratico. Il tuo Pd per il paese di tutti”. (Paese, tra l’altro, è definizione dalemiana: Un paese normale, s’intitolava il libro pubblicato da Mondadori – già di proprietà berlusconiana – nel 1995. E soprattutto lo slogan ricorda un tormentone canoro di qualche tempo fa: la sovrapposizione fra democratico e impossibile va considerata un lapsus?). Per i due candidati ‘giovani’, invece, il noi è sempre riferito a qualcosa di più ristretto – il gruppo di lavoro, i collaboratori, la cerchia dei sodali – o a qualcosa di molto più largo: la generazione a cui si appartiene, le persone stufe di come vanno le cose; nel caso del sindaco Renzi anche al noi municipale di Firenze.
De bello democratico
Civati e Renzi parlano soprattutto in prima persona. Entrambi amano citare un pantheon pop fatto di cantanti, registi, attori (Civati un po’ di meno); entrambi amano la frase a effetto, il gioco di parole (Renzi un po’ di più): tutte conseguenze del comune imprinting generazionale. Ma le differenze non sono soltanto di misura.
In Civati il gioco di parole è quasi sempre allusivo, basato sul ricalco di quella che si suppone un’enciclopedia in comune col lettore (o elettore). Dal marxiano – marxista sarebbe davvero troppo – Uno spettro (non) si aggira per l’Italia che apre Il manifesto del partito dei giovani (2011) al cinematografico Giovani, carini e soprattutto disoccupati, dal latineggiante De rottamatione fino ai vari L’abbiamo fatta Grosse o Senza Sel e senza ma. Nei suoi testi, didascalicamente scanditi da brevi paragrafi, Civati nomina Ugolino e Anchise, parla di crowdsourcing e del Compagno Excel, cita ironicamente Cicerone (Quo usque tandem?), con l’idea di raggiungere un pubblico che condivide la sua stessa cultura: laureati, insegnanti, il nuovo precariato intellettuale. Per questo può permettersi di riportare molti dati statistici, di chiamare in causa scrittori coetanei come Lagioia, Raimo, Parrella; può parlare, senza dilungarsi in spiegazioni, di Erasmus o di startup.
Renzi invece non si limita, come Civati, a citare Vecchioni o Gino Paoli. Fa sua l’intuizione di Tiziano Scarpa per cui ormai “è la cultura pop che fonda la nostra identità nazionale”, e (senza probabilmente averla mai letta) la trasforma in una modalità di scrittura totalizzante: in quell’immaginario ambienta tutta la sua narrazione. Le auctoritates evocate nelle epigrafi di Fuori! (2011) sono Clint Eastwood, Jose Mourinho, Steve Jobs, Pierluigi Collina; tanto che, quando si vedono spuntare Baden Powell e Calamandrei, viene in mente la jovanottiana “grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa” (non è lui, d’altronde, il più grande politico dopo il big bang?). In altri suoi libri s’incontrano Balotelli e Guardiola, “il derby di personalismi”, “il catenaccio di una sinistra rassegnata”, come a ribadire che Renzi – più che con la Fgci – ha una certa dimestichezza con la Figc (la Federazione Italiana Giuoco Calcio).
La banale bellezza
Rispetto a Civati, Renzi non spiega: racconta. Per questo allunga i capitoli e accorcia le frasi; e non si limita a un tono affabile, ma satura la sua scrittura di segnali discorsivi: marche di (finto) parlato che diventano, tramite l’iterazione, una specie di marchio di fabbrica: “Ok, lo so: la maggioranza dei miei colleghi politici dice che tutto va male”; “Intendiamoci, bisogna anche saper sorriderci sopra”, “Fortunatamente o sfortunamente, sia chiaro”. I suoi aggettivi preferiti sono semplice e banale, perché la sua sfida (altra parola chiave) è “la rivoluzione del buon senso”, che deve riuscire a convincere anche gente come suo nonno e sua zia (entrambi protagonisti di aneddoti). Infatti i suoi giochi di parole non richiedono un particolare sostrato culturale: “contro tromboni e trombati”, “sa di fuffa e forse perfino di muffa», «volevo prendere il voto dei delusi di Berlusconi, arrivo a prendere il veto” (“c’è un problema di vocali”, commenta lo stesso Renzi: come quelle che si compravano alla Ruota della fortuna?).
Il fatto è che la rivoluzione di Renzi (Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, 2012) consiste soprattutto in questa banalizzazione (“Dante era un ganzo … Detta male: gli garbava di vivere”), in questa semplificazione sempre attenta a “non buttarla in politica”. Il suo stilnovo più che uno stile è una elasticissima postura. Riflette la sua immagine fluida, cangiante: dal giubbotto alla Fonzie con cui si presentò dalla De Filippi alla tenuta da maratoneta della domenica, dalle maniche arrotolate alla fascia tricolore. Immagine ben diversa da quello di Pippo Civati, che Paolo Virzì descrive come “lo studente che primeggia a scuola e che però passa volentieri i compiti ai compagni più somari … metà Bob Kennedy, metà Stefano Accorsi”.
Renzi non cerca, come Civati, la geometria numerica delle 10 cose buone per l’Italia che la sinistra deve fare subito (2012) o dei 101 punti per cambiare (la cifra vuole alludere ai franchi tiratori contro Prodi, ma finisce col ricordare la carica dei piccoli dalmata). Al “futuro interiore” di Civati, Renzi preferisce il presente assoluto di Adesso!; all’introspezione centripeta per cui “il Pd deve aprire le porte e le finestre, senza temere infiltrati”, l’estroversa vocazione del Fuori!; alla negazione che – come insegnano i cognitivisti – rischia sempre di affermare (Non mi adeguo! vorrebbe richiamare l’Indignatevi! di Hessel, ma evoca pericolosamente il “non capisco, ma mi adeguo” di Quelli della notte), Renzi risponde con la rimozione: Oltre la rottamazione (titolo che peraltro conferma l’ispirazione di Adesso!: l’album di Claudio Baglioni che seguì La vita è adesso s’intitolava proprio Oltre).
Entrambi, Renzi e Civati, hanno scelto d’inserire nel loro slogan il cambiamento. Ma Civati rimane prigioniero del paradosso tautologico (“Le cose cambiano, cambiandole”) e di un logicismo un po’ logorroico: la mozione congressuale che porta questo titolo è lunga ben 70 pagine. Mentre Renzi sceglie un “L’Italia cambia verso”, declinato in un documento di sole 18 pagine. Slogan forse poco felice in sé (“vien subito in mente un’Italia che prima magari grugniva, e adesso che fa? squittisce?”, ha commentato Annamaria Testa), che però acquista forza grazie alla soluzione grafica di contrapporre specularmente una parola negativa e una positiva, scrivendo la prima da destra verso sinistra: “paura / coraggio”, “burocrazia / semplicità”, “il cavaliere / gli italiani” (dunque il primo va a sinistra, gli altri a destra).
Appare così evidente, una volta per tutte, il passaggio di Renzi dall’ideologia (“sarebbe vile non riconoscerlo, sarebbe ideologico negarlo”) all’ideografia. Nel vestiario, nel vocabolario, nella scelta dei testimonial, tutta la sua comunicazione procede accostando simboli diversi, secondo una logica prettamente narrativa, cioè (come ci ha insegnato Matte Blanco) onirica: in cui si può tranquillamente violare il principio d’identità e non contraddizione. Molto meglio e molto più di qualunque discorso argomentativo, questa comunicazione iconica riesce nell’intento di trasmettere emozioni a un pubblico il più vasto possibile. E poi, se rivoluzione vuol dire etimologicamente capovolgimento, cosa c’è di più rivoluzionario che scrivere i contrari al contrario? Basta col “perdere bene”: ora l’imperativo (l’infinito, a dire il vero) è “vincere”.