Quando il vino fa male

Sinceramente io non sapevo che nella bassa Inghilterra da qualche decennio si produce vino. Ero fermo alle cartine del sussidiario degli anni Cinquanta che davano alla vitis vinifera la stessa area che dà oggi Wikipedia. Invece oggi le vigne ci sono e pare che gli inglesi ne ottengano degli ottimi brut. L’ho saputo ieri, 5 maggio che era anche il Climate Impacts Day, da la Repubblica, grazie a Carlin Petrini, il capo dello Slow Food. Per comodità riporto tutto l‘articolo. Oltre alle evidenziazioni non servono commenti.

Così lo champagne inglese cambia la geografia del vino
LA NOTIZIA ha avuto una certa eco anche in Italia, anche se ristretta forse agli appassionati di vini spumanti o inserita tra le notizie di colore. I vini spumanti inglesi, in particolar modo quelli prodotti con le varietà tipiche della Champagne, da un paio di anni a questa parte, figurano benissimo nei concorsi internazionali, oltre che in quelli britannici.
Era già successo nel 2010, quando un blanc de blancs di Sua Maestà aveva vinto il prestigioso Decanter World Wine Award, surclassando fior di champagne francesi. Lo confermano nel 2012 nuovi concorsi e non solo. Da poco, infatti, il giornalista e wine-blogger Franco Ziliani ha scritto della nascita nel verde Sussex del Rathfinny Estate: 162 ettari di vigneto per produrre spumanti a base di varietà d’ uva di origine francese.
Negli ultimi anni le uve inglesi maturano bene e il clima di Sussex, Kent e altre regioni meridionali regala vini di buona struttura, non troppo acidi, ma abbastanza da consentire vinificazioni impensabili 20 anni fa e risultati semplicemente inediti. Tutto bene, dunque? Temiamo di no. Temiamo, anzi, che eccezion fatta per la soddisfazione personale dei produttori di Oltremanica, non ci sia nulla per cui brindare.
E non perché gli spumanti britannici possano fare concorrenza a quelli italiani, o alle grandi denominazioni del nostro Paese. Non è la difesa un po’ sciovinista del made in Italy che ci impegna. Nemmeno, vogliamo sostenere autarchie produttiveo peggio scomuniche per chi pianta i grandi vitigni francesi in ogni dove: quest’ ultimo è un movimento planetario, in atto da tempo. Ci preoccupiamo quando dei buoni vitigni autoctoni, selezionati da generazioni di agricoltori si perdono per la moda di un gusto internazionale, ma qui non assistiamo a nulla del genere: le isole britanniche non sono mai state produttrici di vino in quantità e qualità.
Quello che ci preoccupa e molto, nel sorgere dell’ astro nascente rappresentato dai vini inglesi è il segno tangibile, che essi rappresentano, di un graduale innalzamento delle temperature medie a latitudini superiori al 50° parallelo. Se fa regolarmente più caldo nel Sussex, significa che in Piemonte fa ancora più caldo e che in Sicilia ci sono aree dove ormai il termometro in estate indica limiti proibitivi per coltivazioni un tempo possibili, anche sull’ isola. Significa che il deserto del Sahara si espande, comprimendo la delicatissima e sovrappopolata area mediterranea dell’ Africa, riducendo gli spazi coltivabili e riducendo gli usi agronomici nelle aree che non diventano proprio incoltivabili.
Vero che viene già meno voglia di brindare? Sembra incredibile che una bottiglia di vino possa rappresentare un termometro tanto efficace e sensibile di quello che succede al nostro pianeta. E tuttavia, sarebbe fermarsi alla constatazione “di colore”, se non approfondissimo proprio le implicazioni del cambiamento, sulla scorta di dati scientifici.
Sulla base delle proiezioni prudenziali più recenti, nel 2009, la Banca Mondiale (non certo un pericoloso ecoestremista) ha ipotizzato lo scenario della produzione agicola nel 2050 dovuto all’ innalzamento delle temperature. I dati, aggregati e ben esposti nell’ Atlante dei futuri del mondo di Virginie Raisson, non lasciano molto spazio all’ ottimismo. Verso la metà secolo, il surriscaldamento avrà ridotto la capacità produttiva delle agricolture di Francia, Spagna e Italia in Europa, mentre avrà aumentato in misura corrispondente quelle di Gran Bretagna, Irlanda e Germania.
Contestualmente però, in Africa, solo il Kenya e lo Zambia avranno visto un possibile, molto modesto incremento di produzione agricola, mentre tutto – ripeto: tutto – il resto del Continente Nero avrà perso fino al 50% della propria capacità di autosostenere la domanda di cibo. E in testa alla triste classifica ci saranno Egitto, Marocco, Mauritania e Angola: territori tra i più popolosi, da cui non potranno che venire ulteriori ondate migratorie.
Non toccherà sorte molto migliore a Brasile, Argentina, Pakistan, Australia e se, per i primi due Paesi sudamericani, la densità di popolazione tutto sommato bassa, date le grandi dimensioni, consentirà forse di gestire la situazione, mi pare più difficile formulare previsioni sugli altri due Paesi: il primo, sovrappopolato e dilaniato da lotte intestine; il secondo alle prese con una desertificazione molto rapida e con una popolazione che conta oggi il 16,4% di immigrati (l’ Europa, per capirci è all’ 8,8%), su cui difficilmente non si ripercuoteranno gli egoismi xenofobi, che ogni crisi porta con sé.
Così, una buona bottiglia di spumante inglese (non credevo che lo avrei mai scritto, fino a pochi mesi fa) diventa la sintesi di cambiamenti realmente epocali per il nostro pianeta. E se di norma un vino spumante si associa alla leggerezza senza pensieri, in questo caso la flute può aiutarci ad acquisire consapevolezza di ciò che accade, in modo persino più efficacee tangibile di una dotta relazione accademica.
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Una risposta a Quando il vino fa male

  1. Adriano Zanon scrive:

    Comunque, non è stato un brutto 6 maggio… Lo ricorderò volentieri.

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