Pantagruele, nel ritirarsi, scorse lungo la galleria Panurge, nell’attegggiamneto d’un fantasticatore fantasticante e dimenante la testa, e gli disse:- Voi mi sembrate un sorcio preso nella pece, che più si sforza di liberarsi e più s’impiastra. E così voi, sforzandovi d’uscir fuori dai lacci della perplessità , vi ci trovate impigliato più di prima, e io no saprei trovarvi rimedio, salvo uno. Sentite un po’.
Io ho spesso udito un proverbio volgare, che il matto può insegnare al savio. Visto che, con le risposte dei savi, non siete riuscito a soddisfarvi, consigliatevi con qualche matto: potrebbe darsi, che facendo così, vi troviate più soddisfatto e contento secondo il vostro gusto.
Già saprete quanti principi, re e repubbliche, sono stati conservati dal parere, consiglio e predizione dei matti, quante battaglie vinte e quanti dubbi risolti: non ho bisogno di ricordarvi gli esempi.
E voi mi darete ragione in questo perché come colui che è tutto intento ai propri affari privati e domestici, scrupoloso e vigilante nel governo di casa sua, il cui spirito non è mai distratto da altro pensiero, che non perde mai occasione di guadagnare e ammassare beni e ricchezze, e che cautamente sa tenersi lontano dai pericoli della povertà, voi lo chiamate savio secondo il mondo, benché sciocco sia nella stima delle Intelligenze celesti: così, per comparir savio agli occhi loro, voglio dire saggio e presaggio per ispirazione divina, e atto a ricevere il dono della divinazione, bisogna invece dimenticare se stessi, uscir fuori di se stessi, liberare i propri sensi di ogni terrestre affetto, purgare il proprio spirito d’ogni umana sollecitudine, e mettere tutto in non cale. Il che volgarmente è imputato a follia.
François Rabelais [1494-1553], Gargantua e Pantagruele, a cura di Mario Bonfantini, Einaudi, Torino (19531) 1993 (cap. XXXVII, p. 442).
(Il brano originale è tutto un periodo, senza a capo, e viene qui forzato nello stile d’internet. Rabelais, uomo di spirito, capirà.)