Su il manifesto dei giorni scorsi si è arrivati a scrivere di “decrescita”, una parola che su questo giornale (come fosse Il Sole 24 Ore) è stata finora centellinata. Ci sono stati tre veloci interventi di Guido Viale, Valentino Parlato e Paolo Cacciari. E’ possibile seguire questo dibattito grazie al sito Eddyburg, dove oggi c’è anche l’intervento di Giorgio Nebbia, il decano dei merceologisti italiani e tra i più antichi ‘rossoverdi’ (se mi è permessa l’espressione).
Dibattito che pare una disputa tra teologi, si tratta infatti del significato di una parola. C’è chi è sostanzialmente favorevole alla prassi della decrescita ma non alla parola (Viale), chi è contrario ad entrambe (Parlato), chi considera la parola indispensabile, quasi taumaturgica (Cacciari). In verità, come sempre accade nelle dispute teoriche, si tratta di ben altro, si tratta di politica o di politiche concrete.
Qui, riporto solo la conclusione dell’intervento di Cacciari, mentre chi ne avesse voglia può vedersi le due interviste ad André Gorz che sono linkate da mesi sotto la testata di Ratatuia.
Io credo che il termine decrescita infastidisca proprio perché colpisce il cuore del problema che molti dei critici della decrescita preferiscono non affrontare, credendolo “impresentabile” per la radicalità del cambiamento richiesto: immaginare e rivendicare una società fuori dal capitalismo e scegliere comportamenti, abitudini, stili di vita improntati al saper fare il più possibile da sé, alla sobrietà, alla sufficienza, al controllo consapevole e responsabile delle conseguenze del proprio agire.
Una società di liberi perché eguali, semplicemente, deve scegliere di farsi la raccolta differenziata, di astenersi dal mangiare hamburger, di evitare di servirsi di lavoro schivo, di servirsi delle banche che imprestano ad interesse, di rinunciare a produrre e vendere armi e via dicendo. Insomma, dentro i paradigmi della crescita non credo vi potrà mai essere l’auspicato – da Viale e da tutti noi – autogoverno dei processi economici.
Scriveva André Gorz (anche lui “povero di contenuti”?): «La decrescita è una buona idea: essa indica la direzione nella quale bisogna andare e invita a immaginare come vivere meglio consumando e lavorando meno e altrimenti». Chissà perché non dovrebbe essere un mondo auspicabile, desiderabile, per il quale vale la pena lottare.
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Che cos’è la tecnologia senza materia prima? Sa Livi Bacci immaginare i telefonini senza il coltan, le auto elettriche senza il litio, i biocombustibili senza il mais? Porre l’innovazione e la tecnologia come obiettivi è un’abbaglio. Si torni a discutere di limiti fisici (popolazione, emissioni, consumi, ecc.), innovazione e tecnologia faranno la loro parte senza essere chiamate all’appello come rimedi taumaturgici a prescindere.
Continua il dibattito seguito da Eddyburg.
“Quello che a me interessa è ragionare su quale crescita. Io voglio una crescita nella quale contino sempre di più tecnologia e innovazione, e contino sempre di meno consumo di energia e di materia prima. Una crescita così avrebbe un impatto scarso, mentre invece una crescita che richiede tantissima materia prima, tantissima energia è una crescita che comporta un’impronta ecologica fortissima. Insomma la crescita io non la considero un tabù. Ma è ancora peggio considerarla il peccato originale! Mi interessa discutere su “quale” crescita, mentre la discussione teologica su crescita sì-crescita-no non m’interessa per niente.” – Così ieri il demografo Massimo Livi Bacci.
E per inciso, ha usato l’espressione ‘discussione teologica’, molto simile alla mia ‘disputa tra teologi’.