La Città Futura

il progetto rossoverde per Portogruaro
 

Preferiamo di No

30 novembre 2016
Pubblicato da La Città Futura

Domenica 4 dicembre, dalle 7 alle 23, si voterà alla fine di una campagna referendaria lunghissima ed esagitata come nessun’altra nella storia d’Italia. Ma se la campagna è stata dura, anzi durissima, è stata altrettanto, se non anche di più, impropria, depistante, in una parola: falsa. Tant’è che molti – se non proprio tutti – non sanno per cosa voteranno dal punto di vista tecnico o comunque voteranno per altri obiettivi, sostanzialmente pro o contro Renzi. In realtà si vota su una proposta di riscrittura di 47 articoli su 139 della Costituzione, il patto fondamentale degli italiani.

Noi rossoverdi votiamo e chiediamo di votare No, per ragioni di metodo, di merito e per ragioni politiche.

Le ragioni di metodo sono da sole una ragion sufficiente per votare No, anzi forse sono perfino più importanti di quelle di merito. Questa riforma è nata infatti – almeno apparentemente, perché i padri putativi non mancano di certo – da un’iniziativa del Governo ed approvata da una maggioranza parlamentare risicata e figlia di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (4 dicembre 2013). Un’adeguata sensibilità repubblicana avrebbe imposto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed al Presidente del Consiglio Enrico Letta di attivarsi per modificare rapidamente la legge elettorale ed indire nuove elezioni. Ma le cose – seppur con poca chiarezza – sono andate diversamente, a partire dal cambio del governo con l’insediamento di Matteo Renzi (21 febbraio 2014). Così, invece che far votare con una nuova legge elettorale, la riforma costituzionale è stata approvata con un percorso a dir poco indegno dell’oggetto, a base di minacce di elezioni anticipate, sedute notturne, canguri e dimissionamento dei dissidenti. Insomma, le origini ed il metodo usato non potevano che portare ad una vittoria sanguinosa ed all’approvazione di una legge di parte, parte molto ristretta, non certo di tutti.

Vediamo ora le ragioni di merito. La modifica riguarda tanti diversi articoli, alcuni però sono principali, nodali, ed un primo gruppo riguarda la fine del bicameralismo paritario (art. 55), la struttura del nuovo Senato (57-58-59) e la definizione (si fa per dire) del suo procedimento legislativo (70). Trainate, ma anche forzate, sono poi le variazioni sui referendum popolari (71-75), l’introduzione della corsia preferenziale delle iniziative governative (72) e di altri aspetti sulle promulgazioni (73), tra cui la delibera dello stato di guerra, lasciata solo alla Camera (78), infine aspetti particolari del potere del capo dello Stato (74-77) e della sua elezione (83-85-86-88).

Oltre alla fine del bicameralismo paritario, il punto più importante dell’intera riforma, si tratta dell’abolizione del Cnel (art. 99) e la soppressione definitiva delle province (114-118). Ma un altro punto assai forte è lo stop al federalismo (117) con l’introduzione della clausola di supremazia che permette la Governo di decidere su tutto e sopra tutti, in particolare in termini di energia e infrastrutture. Praticamente si svuotano le Regioni di discussioni e funzioni programmatiche sul territorio. Per queste si stabiliscono anche tagli con norme sui stipendi e rimborsi (120-122). Piuttosto importanti, anche se apparentemente conseguenti e defilate, sono le nuove regole per l’elezione dei membri della Corte Costituzionale (135).

Abbiamo fatto una selezione significativa degli articoli riformati, concentrando l’attenzione sulla fine del bicameralismo paritario e sul ritormo smaccato al centralismo statale. Questi sono infatti i due punti focali. Sul secondo dei quali è facile pensare ad un voto sfavorevole, mentre sul primo il linea di principio si potrebbe essere favorevoli se non ci trovassimo di  fronte ad un pasticcio incredibile. Mentre si tende ad esaltare la riduzione dei membri del nuovo Senato da 315 a 100, l’ingrediente principale di questo pasticcio è la confusione del ruolo stesso del nuovo Senato e la sua elezione indiretta attraverso le Regioni e le Città metropolitane. Siamo di fronte al mantenimento di fatto del bicameralismo, ma in un modo assai più confuso. E’ opinione diffusa che i conflitti di competenza tra le due camere saranno enormi e che l’elezione indiretta al Senato di politici locali servirà a rafforzare la critica alla casta politica, che ormai è all’esasperazione.

Rimangono infine un paio di considerazioni politiche. Prima, non possiamo certo dimenticare che durante la riforma costituzionale è stata realizzata, sempre a colpi di mano, la legge elettorale per la nuova Camera chiamata Italicum (6 maggio 2015) che prevede soprattutto un premio smisurato al partito vincitore di un ballottaggio: riforma costituzionale e Italicum combinati assieme stabiliscono il premierato assoluto. Tutto senza neppure la dichiarazione d’intenti molto chiara del precedente tentativo di Berlusconi (2005). C’è già la volontà e l’accordo (interno al Pd!) per modificare l’Italicum? Ci sono altri personaggi che accettano questo accordo come sufficiente per dire Si? Noi pensiamo che aver pensato la combinazione sia già una buona ragione per dire No.

Il secondo punto politico è anche di natura storica. Questa riforma è chiaramente l’ultima tappa di un lungo processo che va verso più decisione e meno rappresentanza, più governabilità e meno diritti, più stabilità e meno conflitto. Questo è il trend in atto da decenni e molti cambiamenti fanno già parte della nostra costituzione materiale (ma anche formale, come nel caso dei vincoli Ue, vedi il pareggio di bilancio). Di questo trend è oggi protagonista principale Matteo Renzi e la maggioranza del Pd e quindi il voto per il No è un giudizio negativo su questi protagonisti. Se vince il No si può sperare di rovesciare la tendenza in atto, se poi non avremo più certi protagonisti ce ne faremo una ragione.

Andiamo quindi a votare e votiamo No.

(30 novembre 2016)

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