Oggi Eddy Merckx compie settant’anni. Per chi l’ha conosciuto può bastare l’articolo qui sotto di Gianni Mura, per chi è fortunatamente così giovane da non averlo conosciuto non può bastare né la bella voce Wikipedia né qualche video d’annata. Aspettare la Milano-Sanremo per vedere come Merckx l’avrebbe vinta è stato un privilegio di noi sessantottini, uno dei tanti.
Io l’ho visto passare su strada una sola volta, ma fu un evento particolare. Ero sotto naja alpina e si stava facendo il campo estivo dalle parti di Forni di Sopra. Durante una manovra, cioè quelle simulazioni che in realtà mi ricordavano i giochi da far west che facevamo da bambini con pistole e fucili di legno, ci accostammo mimetizzati e proni sotto gli alberi al Passo della Mauria. Era l’ultima tappa del Giro 1973, la Auronzo-Trieste. Volevo vedere quel ciclista che l’anno prima era già riuscito a ripetere la doppietta Giro-Tour (1970 e 72), come Fausto Coppi (1949 e 52). Ma poi ne fece una terza nel 1974, una ogni due anni, a conferma che non era cosa così facile neppure per lui.
Passarono in ordine Fuente, il giovane Battaglin (terzo in classifica finale) e Merckx che non li mollava neanche nell’ultima tappa, mentre non vidi Felice Gimondi che finì secondo in classifica generale. Il ciclismo resta un grande sport anche perché ha avuto grandi campioni come Eddy Merckx.
Roma – Ha vinto tante corse, ha sconfitto tanti pregiudizi, ha obbligato e continua ad obbligare esperti e tifosi al solito vecchio esercizio: più grande Coppi o Merckx? Per uscire intatti dal ginepraio, la risposta esatta è: “Coppi il più grande, Merckx il più forte”. La paternità della frase è attribuita a Jacques Goddet, Bruno Raschi e Gian Paolo Ormezzano. Non so chi sia stato il primo ma posso sottoscriverla. Oppure affermare che, di tutti quelli che ho visto correre, Merckx è stato il più grande e il più forte (poi, Hinault). La grandezza non si misura solo sulle vittorie, altrimenti con Merckx non ci sarebbe sfida. Si misura anche sul valore degli avversari, e Coppi ne ha avuti, tanti e forti. Anche Merckx, però.
Cominciò quando erano agli sgoccioli Anquetil, Van Steenbergen e Van Looy. Gli altri, mescolando velocisti, uomini da corse a tappe, cronomen: Poulidor, Guimard, Thevenet, Ocana, Fuente, Jimenez, Agostinho, Gimondi, Adorni, Motta, Zilioli, Bitossi, Dancelli, Durante, Basso, Zandegù, Zoetemelk, Van Springel, Roger De Vlaeminck, Pingeon, Reybroeck, Godefroot, Leman, Janssen, Altig, Maertens, Ritter, Sercu, Bracke. Quasi una trentina, con una loro specializzazione. Quella di Merckx era di non averne. Andava forte su tutti i terreni.
Si presentò a Sanremo, nel ’66. Aveva finito da un mese il servizio militare. Aveva già vinto un mondiale dilettanti, ma fu ugualmente una sorpresa. E per un po’ si pensò che l’eredità dei due grandi Rik era assicurata, ecco il nuovo dominatore delle classiche. Ma un belga forte davvero in salita si doveva ancora vederlo. Essendo belga, disse Brera, Merckx avebbe scontato una dieta povera di carboidrati. Neanche un po’, invece. Dopo una breve stagione alla corte dei due Rik (che certamente non lasciavano spazio a un pivello) e due alla Peugeot, Eddy scelse l’Italia, le squadre italiane: tre anni con la Faema (poi Faemino), sei con la Molteni di Arcore. Vinse il Giro del ’68 con un’impresa sulle Tre Cime di Lavaredo, sotto la neve in maniche corte. In 12 km di salita aveva recuperato 9′ a sedici fuggitivi, tra cui Bitossi. Gli buttarono addosso una coperta di lana e lo scortarono al rifugio, dove si lavò in una tinozza d’acqua bollente. Lo so perché c’ero.
Era un ciclismo così, quando faceva caldo i corridori mettevano una foglia di verza sotto il berrettino. “Non sono mai andato così forte in salita”, disse Merckx anni dopo. C’ero anche nella camera numero 11 dell’hotel Excelsior di Albisola, quando Merckx in maglia rosa fu messo fuori corsa per doping. Mancavano solo i crisantemi fuori dalla porta, era tutta una processione a piccoli gruppi che Marino Vigna, col groppo in gola, filtrava sulla soglia. Prima le grandi firme, Zavoli con gli operatori del Processo alla tappa, poi gli altri alla spicciolata. Io entrai con un gruppetto della Scic (Armani, Paolini, Casalini), una pacca sulla spalla e via. Lui continuava a piangere come un bambino che si ritrova col giocattolo rotto e quella mattina pensai: o è un attore più bravo di Marlon Brando o è davvero innocente e qualcuno gli ha messo qualcosa nella borraccia quando tutte le bici erano accatastate fuori dal duomo di Parma, e i corridori dentro, a messa. Non ho cambiato idea, su quell’episodio in particolare. So che in un’intervista a Philippe Brunel Merckx ha dichiarato che due giorni prima di Parma Rudi Altig gli si era presentato con una grossa borsa piena di soldi perché perdesse il Giro e lui gli aveva detto: “Non aprirla neanche, non voglio sapere quanto c’è dentro, io queste cose non le faccio e basta”. Ma aveva anche escluso che Gimondi fosse al corrente: “Felice è l’avversario più leale che ho incontrato”. Infatti si trovano ancora, almeno una volta all’anno, con le mogli. “Quando Felice si alza e dice buonanotte, non devo guardare l’orologio, so che è mezzanotte”.
Quel 1969 fu l’anno più buio (Savona e Blois) e più luminoso di Eddy. Aveva vinto la sua terza Sanremo, la Parigi-Nizza, il Fiandre con 5′ su Gimondi, la Lbl. Tornato ferito a Bruxelles (su aereo messo a disposizione dalla Casa reale) fu ammesso al Tour, mentre in Belgio si boicottavano i prodotti italiani e si sfiorò una crisi diplomatica. Dominò quel Tour da cima a fondo , conquistò la maglia gialla, quella della montagna, quella della classifica a punti e quella della combinata, sei vittorie di tappa, 20 giorni in maglia gialla. Ed era il suo primo Tour. Goddet coniò “merckxismo” e la figlia di Christian Raymond, un corridore della Peugeot, “cannibale” (perché agli altri non lasciava neanche le briciole). Il soprannome gli è rimasto, e non gli piace, come non gli piaceva “l’orco di Tervuren”. Gli piaceva fumare una sigaretta con filtro quand’era rilassato (ero tra i fornitori), bere una pinta di birra con i compagni, dai quali esigeva il massimo. Nel periodo delle kermesses gli capitava di andare a letto molto tardi, poi si alzava che era una rosa e gli avversari stracci.
E nemmeno, come questi tutti i ciclisti, arrivava da una famiglia povera. Jules e Jenny Merckx gestivano una drogheria nella periferia di Bruxelles. Eddy non aveva molta voglia di studiare. Faceva sport (corsa campestre, un po’ di pugilato), tifava per l’Anderlecht ma era solo discreto da calciatore, subito vincitore da ciclista. A chi non c’era, dirò che Merckx andava forte in salita, in pianura e in discesa, che ha vinto anche un titolo belga di ciclocross, che ha battuto il record dell’ora, che ha vinto in pista 17 Sei Giorni. Gli chiesero: cos’è per te lo sport? “Vincere”, rispose.
Nel settembre del ’69 sulla pista di Blois il guidatore della sua moto fu investito, cadde e morì. Lui se la cavò con un trauma cranico e uno spostamento del bacino che in salita lo obbligava a una postura particolarmente dolorosa. “Ho pianto spesso per il male”. Ma resisteva bene alla fatica, non pativa né il caldo né il freddo. Era un ciclismo elementare e grandissimo. Bisogna avere una grande fantasia per vincere 7 volte la Sanremo. Ma, visto che oggi compie 70 anni, vorrei aggiungere che non era freddo né scostante, emanava luce da campione e calore umano, sapeva vincere, eccome, ma anche perdere. Un cardiologo piemontese, Giancarlo Lavezzaro, lo visitò ad Alba nel ’67 e gli riscontrò una miopatia ipertrofica non occlusiva, un cuore a rischio d’infarto. Oggi Merckx non otterrebbe la licenza per fare sport ad alto livello. Ipertrofia a parte, il cuore grande era molto generoso.
Pagato per dare spettacolo, fornito dalla natura di tutti i mezzi per darlo, di spettacolo ne ha dato davvero tanto, ogni anno da febbraio a ottobre, non come si usa adesso. Questo, con gli auguri per i 70 anni anni, va riconosciuto a Edouard Louis Joseph Merckx. Con un grazie da ex suiveur che ha ancora un po’ di memoria.
(la Repubblica, 17 giugno 2015)
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