Le biomasse, in generale, e i biocarburanti di prima generazione, più in particolare, non sono il modo migliore per ridurre le emissioni di gas serra. L’accusa ai limiti dei biofuel non è una novità, ma il nuovo report pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze tedesche Leopoldina è interessante perché tenta una valutazione a 360 gradi della sostenibilità delle varie forme di bioenergia. Le principali controindicazioni sono note: per alcune colture e filiere il bilancio in termini di gas serra può essere controproducente e spesso rubano spazio alle colture alimentari con la conseguenza di far salire il prezzo dei cereali e di causare deforestazione.
Questi sono i motivi per cui dallo studio emerge l’ennesima bocciatura dell’obiettivo europeo 2020 di soddisfare entro quell’anno il 10% del fabbisogno energetico per i trasporti con le rinnovabili, che rischia di essere coperto quasì totalmente con i biofuel. Ma secondo i 20 accademici che hanno contribuito al report, il ricorso alle biomasse andrebbe limitato in generale: per ridurre le emissioni di CO2 queste fonti sono molto meno efficienti di altre come eolico e fotovoltaico, anche se ovviamente le biomasse hanno il vantaggio di poter essere trasformate agevolmente in combustibili liquidi o di poter produrre in modo altamente modulabile e in cogenerazione sia elettricità che calore.
Focalizzandosi sul caso tedesco, ma facendo un discorso valido a livello europeo e globale, infatti, il report bolla come troppo ottimistiche sia le valutazioni sugli impatti di biocarburanti e altre biomasse fatte dalla Comunità Europea, sia quelle dell’IPCC Special Report 2012 on Renewable Energy (SRREN) che quelle del BioÖkonomieRat del Governo tedesco. La conclusione è che, fatta eccezione per quelle derivate da prodotti di scarto e sottoprodotti, le biomasse non sono un’opzione praticabile su larga scala per ridurre le emissioni.
Per esempio, censendo la filiera forestale tedesca si ritiene che aumentare o anche solo mantenere il livello di produzione energetica attuale da legna comporta il rischio di compromettere il patrimonio boschivo nazionale senza contribuire alla riduzione delle emissioni. Solo foreste mantenute in equilibrio, cioè in cui si ripiantumi di pari passo con il taglio, avvicinerebbero alla neutralità in termini di CO2. Ancora peggio va nella biomassa coltivata: qui, tenendo conto dell’uso di nitrati per i concimi, dell’energia spesa nella coltivazione e di tutto il resto, le emissioni sono quasi sempre superiori alla quantità di CO2 immagazzinata dalla pianta. Per il biogas, si spiega, solo alcune filiere particolari sono sostenibili e per biodiesel e bioetanolo la sostenibilità è ancora più difficile da ottenere. A questo si aggiunge il fatto che la quantità di biomassa necessaria per soddisfare l’obiettivo europeo sui trasporti è incompatibile a livello di terreni disponibili con la produzione alimentare. E che gran parte viene dall’importazione da Paesi nei quali è difficile controllare le filiere.
I biocarburanti di prima generazione, dunque, in questo report sono tutti bocciati. Perfino il bioetanolo da canna da zucchero – che con un EROI (rapporto tra rendimento energetico ed energia investita) che arriva fino a 8 ed è tra i migliori – secondo gli autori non è pienamente sostenibile: per avere quei rendimenti infatti bisogna usare per il processo di lavorazione il calore ottenuto bruciando i residui della canna, la cosiddetta bagassa, anziché reinterrarli nel campo e questo significaestrarre carbonio dal suolo. Meglio da questo punto di vista il biogas, i cui residui di lavorazione vengono resistuiti ai campi come fertilizzanti, permettendo, nelle filiere ben fatte, di avere bilanci negativi in termini di CO2.
Speranze restano in un rapido sviluppo dei biocarburanti di seconda generazione, specialmente quelli a base di materie lignocellulosiche, che eviterebbero parte degli impatti negativi di quelli attuali. Il report dell’Accademia nazionale è invece molto scettico sullo sviluppo dei biocarburanti dalle alghe: con le tecnologie attuali, si scrive, l’EROI dei biocarburanti da alghe è al di sotto di 1, si spende cioè più energia per produrli di quella che rendono. Un paragrafo è dedicato anche alla produzione diidrogeno da biomasse. Anche qui siamo lontani dalla competitività: con il metodo più diffuso, cioè ricavandolo dal metano, si ottiene idrogeno a 1 $ al chilogrammo, mediante elettrolisi (che può essere fatta anche con l’elettricità da rinnovabili) si sale a 3 $/kg, mentre ottenere l’idrogeno con la pirolisi da biomasse attualmente, si spiega, al momento costa circa 7 $/kg.
In conclusione vale la pena scommettere sulle biomasse? Secondo gli autori per quanto possibile meglio concentrarsi su altri metodi per ridurre la CO2: efficienza energetica, eolico, fotovoltaico e solare termico. Le biomasse dovrebbero essere promosse solo laddove non entrino in competizione con la filiera alimentare, abbiano un impatto ambientale sostenibile e un bilancio in termini di emissioni di gas serra almeno del 60-70% migliore dei vettori energetici che sostituiscono (tipicamente benzina, gasolio e gas). Promettente in tal senso è l’uso di scarti e sottoprodotti, per esempio l’uso dei reflui degli allevamenti per ottenere biogas.
Giulio Meneghello
06 agosto 2012