Sono a pranzo da Adriano, al parco, con Matteo, come spesso accade, e guardo una foto di un quotidiano con un capannone ridotto a macerie dall’ultimo terremoto che ha colpito Emilia e dintorni. Matteo, laureato in economia aziendale, giovane, 35 anni circa, mi guarda con uno sguardo miserevole e mi chiede perché non siamo capaci di costruire a prova di terremoto. Eccolo, lui, giovane e baldanzoso, pensa di arginare la natura, vuole prevedere e neutralizzare i danni del terremoto, crede nelle capacità dell’uomo di imporsi vittorioso ai rivoltamenti della nostra terra e non comprende perché un edificio possa crollare facendo anche dei morti. Bella domanda in una brutta storia.
Innanzitutto, tento di far comprendere al giovane interlocutore che la natura, in tanti casi, non si può dominare, si può tentare di prevedere e di limitare i danni che essa può provocare e lavorare per ridurre quest’ultimi. Partiamo dalla considerazione che le nostre case e i capannoni sorgono in un territorio, l’Italia, complicato dal punto di vista geografico, stretto e allungato verso il mare con due catene montuose che lo disegnano, molto urbanizzato, che si è costruito tanto negli ultimi decenni e con molti edifici storici.
Abbiamo costruito tanto, abbandonando la manutenzione dell’esistente, in particolar modo degli edifici più bisognosi, quelli storici, come è successo con il paesaggio in generale, con le strade, con la ferrovia, con la costa, con le montagne ecc.
Abbiamo costruito male, con materiali sbagliati, pesanti, fra loro non collegati, per alimentare quella speculazione edilizia che ha riempito gli spazi agricoli con squallidi capannoni prefabbricati.
Edilizia industrializzata, nuova, in calcestruzzo precompresso fatto nello stabilimento e montato nel cantiere con fondazioni prefabbricate, pilastri, travi, pareti di tamponamento e tetti sostenuti da grandi, pesanti travi precompresse semplicemente appoggiate. Il calcestruzzo al mc pesa circa 2.500 kg, una trave alta 100 cm e larga mediamente 50 cm pesa ogni metro dunque 1.200 kg: una tonnellata abbondante, ogni metro, sopra la nostra testa, quasi sempre per sostenere un tetto leggero, magari in eternit.
L’edilizia dei capannoni è veloce, deve costare poco: è stato il mercato immobiliare degli ultimi 10 anni, non viene fatta perché serve; esiste soprattutto per fare soldi oppure per non pagare tasse.
«Guarda le foto dei giornali, dico a Matteo, osserva i campanili, le chiese in parte cadute, vedrai cumuli di mattoni di terracotta, travi di legno, materiali leggeri che se cadono normalmente non provocano vittime. Ogni elemento fa parte di una unica struttura; ognuno anche se esile è indispensabile per sorreggere la struttura; ci sono campanili in piedi con tre lati, ci sono solai appesi alle tavole, ci sono in queste immagini la sapienza, la socialità e la cultura del saper costruire. Non riusciamo spesso a salvare questa architettura dai terremoti, dovremmo incidere troppo nella storicità dell’edificio, dovremmo scavare, bucare, inserire elementi estranei, dovremmo violentare l’anima di questi edifici; arrendiamoci cercando di accompagnare questi manufatti ad una fine tranquilla. Siamo capaci di costruire bene, siamo anche in grado di limitare i danni dei terremoti. L’abside della chiesa di Portovecchio per esempio, nel 2005 è stata rinforzata nell’estradosso con tessuti in fibra di carbonio incollati alle crociere in mattoni, ma ancora una volta non è un problema di abilità ma di mercato, caro laureato in economia aziendale. Il mercato e la rendita fondiaria hanno incentivato e fatto costruire questi capannoni che oggi cadono al primo, quasi normale terremoto.»
Basta! Basta con la costruzione di nuovi edifici, capannoni o altro, basta sottrarre altra terra fertile all’agricoltura, impegniamoci in un’altra idea di paesaggio magari partendo dalla trasformazione dei capannoni.
Una grande opera di recupero del paesaggio: un’altra idea di territorio, un’altra idea di convivenza sociale e culturale, un’altra idea di lavoro, e, infine, un’altra idea di spesa pubblica.