Dieci anni fa moriva Marco Pantani (Cesena, 13 gennaio 1970 – Rimini, 14 febbraio 2004), l’ultima leggenda del ciclismo su strada, probabilmente quella finale.
Si sono scritte e pubblicate tante cose, ma su Pantani il migliore resta sempre Gianni Mura che non pretende di saperne più di altri, ma solo di continuare ad avere dei dubbi. Estraggo questo:
Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana.
I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello.
Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker.
(Gianni Mura, “Pantani, un uomo sempre solo, quando vinceva e quando sbandava”, la Repubblica, 11 febbraio 2014)
Dove i riferimenti sono:
Pastonesi Marco, Pantani era un dio, 66th and 2nd, Roma 2014;
Brunel Philippe, Gli ultimi giorni di Marco Pantani, Bur, Milano 2011.
Per una sintesi anche sportiva rimando (immodestamente) anche alla Lettera a Fausto del 1° agosto 2009, su questo stesso sito. Dove (modestamente) Marco scriveva già a Fausto: “A Parigi mi sentivo un dio. Ero bello come un dio. Ero un dio.”
Infine, commemorare Pantani con la foto di lui ed Armstrong sul Mont Ventoux nel 2000 è volutamente provocatorio. Con Armstrong – che è il simbolo dell’organizzazione del business sportivo nel mondo attuale – il ciclismo storico è finito definitivamente, ci resteranno solo alcune leggende, come quella di Marco Pantani.