Riporto senza commenti un articolo comparso sulla pagina odierna di Avvenire.it.
Una, due, tre, quattro… venticinque e ventisei. Ventisei. Tutte ragazze tra i 14 e i 18 anni. Un’enormità. Un’intera classe femminile di una nostra scuola superiore cancellata. Immaginate un insegnante che legga 26 nomi, all’appello del mattino, in aula: servirebbero lunghi minuti e ogni alunna risponderebbe «presente» e alzandosi in piedi riempirebbe la stanza con il suo pezzo di vita, la sua attesa di futuro, la propria originalissima umanità, nessuna uguale a un’altra. Ecco, ventisei ragazze, probabilmente nigeriane, venerdì scorso sono morte nel Mediterraneo. I loro corpi recuperati da una nave della Marina militare spagnola, intervenuta per salvare i passeggeri di un gommone semiaffondato. Perché sono morte solo ragazze? E perché erano radunate in quell’imbarcazione precaria? E perché tutte così giovani?
Le risposte a queste domande ancora non ci sono. Ci sono ipotesi però, che chi indaga sta cercando di verificare: forse sono annegate solo loro proprio perché indifese, più deboli fisicamente e dunque svantaggiate nel momento in cui ciascuno dei naufraghi – in gran parte uomini – ha provato a salvare la propria vita restando aggrappato come poteva alle sponde della barca, magari facendosi disperatamente e cinicamente spazio tra gli altri. Forse era un gruppo di prede destinato alla tratta della carne umana, ed erano sotto la «custodia» di qualcuno che quando l’acqua ha iniziato a salire le ha abbandonate a se stesse, senza dar loro una possibilità di sopravvivere. Forse, ancora, erano indebolite perché già pesantemente provate nel viaggio dalla Nigeria fino alle coste libiche: violentate e torturate, come ha raccontato una donna sopravvissuta e sbarcata ieri al porto di Salerno.
Per quanto ne sappiamo le 26 ragazze potrebbero anche essersi lasciate scivolare giù dal gommone insieme al loro dolore e al loro futuro mancato. Il destino, in ognuna di queste ipotesi, non c’entra. Come spesso accade nei naufragi (l’Organizzazione mondiale delle migrazioni in un rapporto diffuso il primo novembre parla di 111.552 persone approdate in Italia nei primi 10 mesi del 2017 e di 2.639 morti), i corpi delle 26 ragazze non verranno reclamati. Ci saranno madri e padri e nonni e fratelli che non sapranno più nulla: resteranno congelate per sempre nei loro 14, 16, 18 anni e le famiglie forse si illuderanno che l’Europa sia stata madre generosa per le loro bambine. Non sanno e non sapranno che in tanti, in Italia, non hanno avuto pietà. Nemmeno davanti al corteo funebre delle 26 bare, che avrebbero potuto essere bianche, calate dalla nave dei soccorsi, i codardi senza cuore si sono zittiti con l’unico gesto degno, anche da lontano: il segno della croce. E invece no.
Le cronache sulla morte delle 26 ragazze, diffuse già domenica dalle testate giornalistiche attraverso i profili social, sono stati sommerse da commenti impietosi. A chi, come il sindaco di Salerno Vincenzo Natale, turbato, domandava silenzio e raccoglimento davanti alla tragedia, è stato risposto con decine di post agghiaccianti, dal «se ne devono andare» al classico «ci rubano il lavoro», per non contare quelli che alle ragazze morte hanno riservato il più spregevole degli oltraggi, immaginando quella che sarebbe stata la destinazione finale del loro lungo viaggio, il marciapiedi. Quanti animi rimpiccioliti dagli egoismi, dalla superficialità, ristretti dall’incapacità di cogliere in quelle 26 migranti morte da sole, senza famiglia accanto, senza un nome e un volto, quell’umanità che ci accomuna tutti. E quell’attesa di futuro che appartiene a tutte le giovani donne del mondo.
Ma il deserto di umanità rappresentato da tanti post su Facebook non rispecchia (fortunatamente) tutta la realtà: perché le ultime vittime del grande esodo africano, in terra italiana avranno almeno una degna sepoltura. Ieri alcuni Comuni del Salernitano, oltre al capoluogo, hanno dato disponibilità ad accoglierle nei propri cimiteri: e vorremmo che almeno lì ciascuna di loro riavesse, se non il proprio, almeno un nome. E non un freddo numero da 1 a 26.
Avvenire.it – 7 novembre 2107
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E’ triste ed agghiacciante allo stesso tempo, non vogliamo vedere e sentire. Il muscolo che scandisce la nostra vita si è ormai indurito…non lo sentiamo più.