Ecco invece una stringata ma necessaria riflessione (1) sui rapporti storici tra Occidente, guerra e terrorismo e (2) su rapporti tra politica, economia e terrorismo. E’ un’intervista a Umberto Curi, filosofo e docente all’Università di Padova. (Le evidenziazioni sono mie.)
Paura, panico, terrore: è l’effetto domino del Califfato. Così si radicalizzano sicurezza, ordine, emergenza. Un’altra «guerra di civiltà», come nel 2001: oltre la trincea della religione teocon opposta all’islam, ma nel cuore smarrito d’Europa per azzerare ogni melting pot. «Siamo già al paradosso più eclatante. A novembre a Parigi la polizia ha caricato i dimostranti per garantire la loro sicurezza. Sono state vietate tutte le manifestazioni nella patria delle libertà rivoluzionarie e s’impongono misure eccezionali», chiosa Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova, che ha pubblicato di recente il saggio I figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo (Castelvecchi, pp. 140, euro 16.50) e con Gianfranco Bettin Sfidare la paura (Becco Giallo, pp. 80, euro 8.50).
«È un momento di straordinaria delicatezza che rende massimamente necessario il coraggio intellettuale di nuove analisi e nuove categorie interpretative – argomenta ancora Curi -. Qualche possibilità di comprensione autentica dei fenomeni in atto esige il coraggio di una navigazione in mare aperto senza rispettare appartenenze, certezze, fedeltà a presunti feticci ideologici. Altrimenti, la prima e più importante vittoria del terrorismo sarà già realizzata: certificare la drammatica arretratezza culturale occidentale e l’inadeguatezza degli strumenti teorici dell’Europa tutta. C’è una sintesi angosciosa: il titolo Bastardi islamici con cui si raggiunge la vetta nel reclutamento dell’opinione pubblica, ma insieme si esprime una miseria inaccettabile».
Resta la paura che serpeggia nell’anima europea. Si può immaginare qualche antidoto?
La paura è anche ciò che lascia senza parole: lo stato d’animo che sconfina nello sgomento, nella perdita di controllo, nell’emotività sfrenata. Tuttavia, il carattere costitutivo ambivalente e ineliminabile della paura era chiaro fin dall’antica Grecia. Phobos è figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea dell’amore: arduo immaginare una discendenza più contraddittoria. La paura è fattore morfogenetico di disgregazione, tuttavia è anche la base su cui costruire nuovi assetti ordinati. Non a caso la sorella di Phobos è Armonia, la sposa di Cadmo: simbolo non di una staticità immobile e perfetta, quanto invece risultato dei conflitti presupposti dal padre Ares. Insomma, la paura è duale, ambivalente, contraddittoria. Incidentalmente, va ricordato che rappresenta il potentissimo fattore di aggregazione che dà origine allo Stato moderno come spiega Hobbes.
Guerra e pace, binomio «dialettico». Ora però tecnologicamente squilibrato a livello planetario sul fronte del terrorismo, della guerra di religione (anche nell’islam), del controllo delle risorse e perfino della finanza globale. Esiste una risposta non pacificata ai nuovi conflitti?
A differenza di ciò che abitualmente si crede, è sostanzialmente assente dalla tradizione del pensiero occidentale un’impostazione pacifista. Al contrario, alcuni fra i maggiori autori, antichi e moderni – da Platone a Tommaso, da Spinoza a Hobbes, da Fichte a Hegel, da Clausewitz a Schmitt – riconoscono realisticamente l’inevitabilità della guerra, il fatto che sia un evento deprecabile, ma al tempo stesso ineliminabile. Detto per inciso, sarebbe necessario sfatare una vera e propria leggenda, qual è quella che vorrebbe accreditare Marx come pacifista. Per il filosofo di Treviri non solo tutta la storia è storia di lotta di classe, ma i rapporti sociali di produzione, che sono alla base del divenire delle società, hanno un’impronta inconfondibilmente conflittuale.
D’altra parte, già dall’inizio del ventesimo secolo, e in maniera sempre più accentuata con l’inizio del terzo millennio, si assiste a una trasformazione nella morfologia della guerra, e nel nesso fra guerra e politica. Sempre meno la guerra è – come era stata invece in precedenza – «affare» di eserciti e di militari, e diventa un evento che coinvolge direttamente la popolazione civile. Basti pensare che se nella prima guerra mondiale metà dei caduti sono civili, questo rapporto diventa di 2/3 nella seconda guerra mondiale, e addirittura di 1/15, fra militari e civili, nella seconda guerra del Golfo. A ciò si aggiunga che l’impostazione stessa delle operazioni belliche si modifica radicalmente. Si rinuncia al combattimento «stivali sul terreno», per privilegiare forme di conflitto a distanza, capaci di minimizzare o annullare i rischi per i soldati, mentre è la popolazione civile a diventare l’obbiettivo esplicito delle iniziative militari.
Il terrorismo è la risposta ai cambiamenti intervenuti nelle modalità tecniche della guerra, nella misura in cui contrappone simmetricamente al drone, strumento simbolo della nuova morfologia bellica, l’uso del corpo stesso di singoli individui come arma letale.
Si teme lo straniero, il diverso, l’altro, il povero, il dissidente. E s’invoca massima sicurezza anche a costo di rinunciare al minimo sindacale di libertà e diritti. Come se ne esce?
Di per sé, la paura è uno stato d’animo del tutto «naturale», quale conseguenza di una condizione in cui il rapporto con l’«altro» – quale che sia la forma specifica che tale alterità può assumere – pone radicalmente in questione la nostra stessa identità. I problemi nascono soprattutto in relazione alla risposta politica all’emergere della paura. Da un lato, anche ma non solo nel nostro paese, vi sono forze politiche che hanno spregiudicatamente costruito le loro fortune elettorali sull’alimentazione della paura, come la Lega di Matteo Salvini. Dall’altra parte, in quello che resta della sinistra manca una capacità di proporre una soluzione alternativa, che non pretenda abusivamente di cancellare la paura, ma che punti piuttosto a «curarla», attraverso la conquista di più maturi livelli di consapevolezza.
Questo quadro diventa ancor più allarmante se si tiene conto di ciò che sta avvenendo in alcuni paesi europei, in Francia in particolare: la reazione alla minaccia del terrorismo si è tradotta in una istituzionalizzazione dell’emergenza, nella tendenza – logicamente contraddittoria – a trasformare in norma l’eccezione.
Papa Francesco è tornato da Lesbo con dodici musulmani, Tsipras invece mette il filo spinato. Merkel legifera sui migranti, la Spo chiude la frontiera del Brennero. L’Iran accoglie 982mila rifugiati, in Italia dal 2011 sono sbarcati circa duecentomila migranti. Dov’è la bussola?
Nel mio libro cerco di argomentare la stretta connessione rilevabile fra i tre fenomeni macro-politici della nostra epoca: l’asimmetrica distribuzione delle risorse a livello planetario, l’emigrazione, il terrorismo. Trovo quanto meno sorprendente, e per certi aspetti scandaloso, che mentre si è pronti a riconoscere una relazione tra fenomeni spesso diversi ed eterogenei in nome di una fin troppo citata globalizzazione, si perseveri nel ritenere che, ad esempio, non vi sia alcun rapporto fra la povertà assoluta, che affligge ancora quasi un miliardo di esseri umani, e la diffusione del terrorismo.
Non si tratta – ovviamente – di postulare un rapporto diretto, di causa ed effetto. Ma dovrebbe balzare agli occhi un dato che a me pare incontestabile. E cioè che un mondo in cui 4/5 della popolazione dispone di solo 1/5 delle risorse, in cui ogni anno 11 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono di denutrizione, in cui 1/6 delle persone non ha accesso all’acqua potabile, in cui poco meno di un miliardo di individui cerca di sopravvivere con un dollaro al giorno, in cui il patrimonio di una singola persona (come Bill Gates) è superiore al Pil di cinque paesi africani messi insieme – un mondo caratterizzato da questi agghiaccianti squilibri è in se stesso un mondo in guerra, anche là dove non emergano esplicitamente episodi di combattimenti.
Sono convinto che la formula proposta dal segretario generale della Fao – «se vogliamo la pace domani, dobbiamo agire per la giustizia oggi» – costituisca la sintesi migliore per cogliere, in positivo, l’unica opportunità di pace non effimera oggi concretamente perseguibile.
(il manifesto, 28 luglio 2016)
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