Anche questo articolo di Andrea Baranes mi pare dica qualcosa di assai diverso dal solito ritornello sui greci spendaccioni e sulla finanza pubblica greca. Speriamo che votino OXI (NO) anche per rafforzare la nuova guida politica di Tsipras e Syriza: cosa ne sarebbe con un’altra guida?
Ma non della Grecia. La questione è molto più seria e riguarda il falso dogma secondo cui la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione
323 miliardi di euro, circa il 175% del PIL. Il debito pubblico greco è il vero convitato di pietra dei negoziati con le istituzioni europee e internazionali. Da un lato ogni richiesta al Paese ellenico, dal surplus ai tagli alle pensioni, fino all’aumento dell’IVA, è mirato a reperire le risorse per ripagarlo. Dall’altro, una sua ristrutturazione non è in agenda, l’unica discussione possibile è su come fare sì che venga restituito, non se sia possibile farlo e con quali modalità.
L’impossibilità di pagarlo emerge dal rapporto preliminare del Comitato per la verità sul Debito Pubblico, costituito su decisione del Presidente del Parlamento greco. Un punto di vista di parte, quindi, ma interessante se non altro perché ricostruisce la storia e le caratteristiche di tale debito. Una storia che permette di sfatare alcuni dei principali luoghi comuni che caratterizzano il dibattito attuale, dal presunto eccesso di spesa pubblica al fatto che la Grecia continua a pesare sulle tasche degli europei, dopo i diversi piani di salvataggio degli scorsi anni.
Dalla metà degli anni ’90 fino al 2009 la spesa pubblica in Grecia è perfettamente in linea, anzi appena inferiore alla media dell’area euro (48% contro il 48,4%). Se il debito pubblico greco si è impennato dall’inizio degli anni ’80 a oggi, i motivi vanno ricercati altrove: i due terzi dell’aumento sono dovuti agli alti tassi pagati dai bond greci, ovvero all’accumularsi di interessi su interessi, in un effetto valanga. Circa 40 miliardi di euro sono imputabili all’unico settore dove la spesa pubblica è stata ben al di sopra della media europea; non parliamo di sanità, istruzione o di protezione sociale, ma del settore militare.
Un’altra parte è da ascrivere all’evasione e all’elusione fiscale e alla fuga di capitali. Un fenomeno legato anche agli “accordi fiscali” sottoscritti con il Lussemburgo da diverse multinazionali, per pagare meno imposte in Grecia o non pagarne affatto. Informazioni emerse con lo scandalo LuxLeaks, al centro del quale spicca il nome di Jean-Claude Juncker, già ministro delle finanze e primo ministro del Granducato, oggi a capo della Commissione UE che chiede al governo greco di rinunciare alla contrattazione collettiva.
Motivi a cui si somma, con l’arrivo della moneta unica, il continuo peggioramento della bilancia commerciale e dei pagamenti. In ultimo, l’aumento del debito ha seguito quello che si è verificato in tutto il mondo dopo lo scoppio della bolla dei subprime, mentre il crollo del PIL provocava un ulteriore peggioramento del rapporto debito/PIL.
Se questa è la situazione riguardo il debito, ancora più interessante guardare cosa è avvenuto con i piani di salvataggio degli ultimi anni. Piani che si sarebbero dovuti contrapporre alla dinamica del debito, ma che paradossalmente hanno contribuito sostanzialmente a peggiorarla.
Nelle parole di Stiglitz al Guardian, «praticamente nulla dell’enorme quantità di denaro prestata alla Grecia vi è di fatto andata. È invece andata a pagare i creditori del settore privato, incluse le banche tedesche e francesi». In altre parole i piani di salvataggio altro non sono stati se non una gigantesca partita di giro per mettere al sicuro le grandi banche europee.
Prima del 2009, le banche tedesche hanno prestato qualcosa come 704 miliardi di dollari ai Paesi «PIIGS»; seguite da quelle francesi con 477 miliardi. Nello stesso periodo, l’esposizione dei governi italiano, francese o tedesco verso la Grecia era pari a zero. Semplificando, le banche private prestavano allegramente alle controparti elleniche, alla ricerca di profitti più alti, il che permetteva alla Grecia di acquistare automobili, beni di consumo – e armi – tedesche e francesi.
Una strategia sostenuta sia dai governi sia dall’UE, per almeno tre motivi. Il sostegno all’export e alla crescita dei Paesi forti; la volontà di rendere le banche europee dei «competitor globali»; e in ultimo, ma è il fattore forse più importante, perché in assenza di trasferimenti fiscali nell’UE, il compito di ridurre gli squilibri e realizzare l’integrazione europea è stato affidato alla sola finanza privata.
Il bilancio di una tale visione è diventato evidente dopo lo scoppio della bolla dei subprime. In un mercato finanziario al collasso, Atene non è più riuscita a rifinanziare il debito con le banche private, mentre queste ultime, travolte dalla mancanza di liquidità, hanno chiuso i rubinetti.
È qui che intervengono i presunti piani di salvataggio. Peccato che almeno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 siano finiti al settore finanziario. A fine 2009 le banche francesi erano esposte per oltre 78 miliardi, che si riducono a meno di due a fine 2014. Quelle tedesche passano da 45 a 13,5 quelle olandesi da 12 a 1,2. Il debito è travasato dal privato al pubblico, e non ultimi ai fondi pensione e piccoli risparmiatori greci, secondo il noto principio di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Nelle conclusioni del rapporto commissionato dal Parlamento greco, «la gestione della crisi è stata un fallimento come conseguenza del fatto che è stata affrontata come una crisi del debito sovrano, mentre in realtà era una crisi bancaria».
È in questi termini che si spiega l’apparente paradosso di un debito che registra il massimo aumento – passando dal 129,7% del 2010 al 177,1% del 2014 – proprio nel periodo sia di «salvataggio» sia di applicazione delle ricette della Troika fondate sull’austerità.
Politiche che prevedono una moneta e una banca centrale uniche, ma che in assenza di unione fiscale e politica lasciano i Paesi in difficoltà a gestirsi il proprio debito pubblico. Un’Europa che inonda di liquidità senza porre condizioni i responsabili della crisi e impone sacrifici e austerità ai cittadini che l’hanno subita. Un sistema in cui le banche sono too big to fail ma gli Stati sono abbandonati a loro stessi. Una visione in cui regole di bilancio scritte a tavolino vengono prima del benessere e della stessa sopravvivenza dei popoli. Una dottrina che considera unicamente le responsabilità dei debitori e mai quelle dei creditori. Il dogma fasullo secondo il quale la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione. E l’elenco potrebbe continuare.
Quello del debito greco rappresenta non uno, ma una pluralità di fallimenti. Il vero problema è che non parliamo né di un fallimento della Grecia, né di un fallimento economico. La questione è di dimensioni ben più grandi e decisamente più preoccupante.
Quello che sta avvenendo in Grecia rischia di essere l’emblema del completo fallimento politico e sociale dell’intero progetto di Unione Europea.
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