Riporto l’intervento di Marco Revelli all’assemblea nazionale della Lista Tsipras del 19 luglio.
Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano. Siamo invece andati male nel terremotato (socialmente) Nord-Est, dove Renzi ha sfondato su tutti i fronti, svuotando Grillo, Lega e Berlusconi (i vincitori di ieri e l’altro ieri), e dove invece noi abbiamo registrato il quoziente più basso (3,66), con il buco nero del Veneto (2,74), e in particolare della provincia di Rovigo, il capoluogo in assoluto più basso col 2,44%. Nord Ovest e Isole stanno di poco più sopra rispettivamente col 3,81 e 3,70 (con però un’insperata Valle d’Aosta al 7,68%, merito di Rosa Rinaldi e della sua task force). Il che significa che siamo sotto in tutto il Nord, in Sicilia e in Sardegna.
E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).
E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% – quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani”. Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).
Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).
La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata il Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza – con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.
Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito -, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia. E poi l’anomalia della composizione delle liste, con l’esclusione programmatica di candidati già eletti nell’ultimo decennio (che era il modo più semplice per limitare al minimo il “professionismo politico” e lanciare un chiaro messaggio di discontinuità all’elettorato). L’anomalia di una lista, dunque, come si è detto e ripetuto, “di cittadinanza” appoggiata e sostenuta da una rete di associazioni e anche da partiti che tuttavia si mantenevano uno o due passi indietro: condizione che non era riuscita nella precedente esperienza di “Cambiare si può” e di “Rivoluzione civile”, e che come sappiamo ha richiesto un certo braccio di ferro non del tutto irenico. L’anomalia, infine, di una campagna esplicitamente combattuta in condizioni di povertà assoluta, affidandoci molto all’iniziativa dal basso, dei candidati, dei loro “ambienti” di riferimento, delle loro risorse relazionali, con pochissimi e fragilissimi strumenti “centrali”.
Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall’altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt’intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale – il successo – quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi – alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all’opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.
Marco Revelli
18 luglio 2014
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