Riporto tutto l’articolo di Marco Revelli – Una questione di democrazia – pubblicato su il manifesto di oggi. Non ha bisogno di tanti commenti e tornerà utile tra poco, perché siamo in presenza di una questione centrale, sia di metodo (democratico) che di contenuto (il Tav in Val di Susa).
Ancora la Val di Susa. Ancora la resistenza contro il Tav. Il blitz – così lo chiamano giornali e tv – di giovedì all’alba è caduto in un paese segnato dalla crisi e attraversato da ventate di rivolta a cui non si era più abituati, dai “forconi” siciliani agli autisti dei tir. E già prende corpo l’idea di una manovra repressiva ad ampio raggio, che affianchi all’autoesclusione della democrazia parlamentare la chiusura degli spazi di mobilitazione dal basso nel quadro di una modernissima forma di dispotismo della ragione economica e dell’emergenza finanziaria.
In effetti, ci si sarebbe aspettati che in un momento in cui si raschia il fondo del barile per far cassa, e si spremono persino i pensionati per ridurre il debito pubblico, si dedicasse non dico un encomio solenne al valor civile, ma quantomeno un minimo di ascolto a chi da anni si batte per evitare che una ventina di miliardi di euro vengano gettati in un buco inutile e dannoso. E che il peso di quell’opera folle fosse sollevato dalle spalle degli italiani. Invece i 26 arresti, le perquisizioni a tappeto, gli ordini di custodia cautelare. Perché tanto accanimento? E perché ora, a sette mesi dai fatti contestati? Con tanta inopportunità nei tempi, nei modi e nelle dimensioni dell’azione repressiva?
Credo che le ragioni siano due, entrambe estranee a un qualche piano generale di cui questa classe politica, per quanto male se ne pensi, non sembra né in grado né interessata. La prima attiene alla natura dell’opera. Tutto ciò che riguarda il Tav è destinato ad assumere dimensioni abnormi. Parossistiche. L’intreccio di interessi che ruotano intorno ad esso è tale che qualsiasi contestazione, dubbio, ostacolo assume il carattere dell’attentato. Qualsiasi gesto di resistenza subisce lo stigma di un atto di guerra. Vale davvero per il Tav quello che vale per le linee dell’alta tensione: «Chi tocca i fili muore». Chi pone ostacoli alla Torino-Lione rischia di fulminarsi: non per nulla il cantiere di Chiomonte è stato dichiarato, con atto sconsiderato, «strategico», come le basi Nato in Afghanistan. Gli arresti di giovedì sono stati invocati, a gran voce, da politici di ogni colore, in forma rigorosamente bipartisan, con toni imperativi da crociata, con l’appoggio di pressoché tutte le grandi testate giornalistiche.
La seconda ragione è più banale. Mi viene un solo termine: ottusità. Non conosco tutti gli arrestati. Ma quelli locali sì. C’è un barbiere di paese, amato e stimato da tutti, in solidarietà del quale si sono mossi in blocco i commercianti di Bussoleno. C’è un consigliere comunale che al momento dei fatti era azzoppato e si sosteneva con due stampelle, una delle quali figura, con raro sprezzo del ridicolo, come corpo del reato, novello Enrico Toti del nord-ovest. C’è un vecchio anarchico, Tobia Imperato, che tutti noi conosciamo: uno che da anni entra ed esce di prigione ad ogni manifestazione, come i suoi antenati ai tempi delle visite del Duce, ma che non farebbe male a una mosca. E poi un ex Br, quasi settantenne ormai, basta vedere la fotografia, difficile immaginarlo a fare guerriglia sui dirupi scoscesi della Maddalena. Più probabile che sia stato messo li, nella lista, per abbellire il quadro con un pizzico di terrorismo scaduto.
Sette mesi di lavoro di intelligence per arrivare a questo? A mandati di cattura senza flagranza di reato? E per reati che, se comprovati, sarebbero da considerarsi comunque “minori”? Nutro una grande stima personale per il procuratore Caselli. Conosco il suo impegno non solo nella battaglia alla mafia ma anche nel volontariato. Mi ha fatto davvero male vederlo mettere la propria faccia e la propria parola in quest’occasione. Ma forse l’amara conclusione è questa: anche se guidata da un eroe civile, la macchina burocratica-repressiva possiede un’ottusità di fondo inemendabile, che vanifica ogni spirito di giustizia.
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