I confini planetari del cambiamento climatico da non oltrepassare

I confini planetari del cambiamento climatico da non oltrepassare

[ 30 novembre 2012 ]

Gianfranco Bologna

A Doha è in  pieno corso la 18° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici che dovrebbe finalmente porre le basi per un accordo ambizioso e vincolante sul clima entro il 2015, ma il gap esistente tra l’avanzamento delle conoscenze scientifiche e l’inazione politica sembra drammaticamente acuirsi, come più volte ho sottolineato nelle pagine di questa rubrica.

E pensare che proprio pochi giorni prima della Conferenza sono usciti due importanti ulteriori rapporti, uno della Banca Mondiale e l’altro dell’Unep, che hanno contribuito ad arricchire il panorama dei forti richiami sull’urgenza ad agire, prima che sia troppo tardi.

Il rapporto della World Bank dal titolo “Turn Down the Heat. Why a 4°C Warmer World Must Be Avoided” è stato realizzato dall’autorevole Potsdam Institute  for Climate Impact Research, diretto dal noto studioso Hans Joachim Schellnhuber, e riassume le migliori conoscenze scientifiche esistenti sugli effetti di un cambiamento climatico superiore di 4°C rispetto alla temperatura media globale della superficie terrestre presente in epoca preindustriale. Si tratta di uno scenario molto probabile entro la fine del secolo, se non verranno attuate da subito significative riduzioni delle emissioni.

Un riscaldamento di 4°C o più entro il 2100 corrisponde ad una concentrazione di anidride carbonica di circa 800 ppm nell’atmosfera.

Il rapporto sottolinea che la concentrazione del maggiore gas da effetto serra, l’anidride carbonica, sta continuando ad incrementare dalla sua concentrazione in epoca preindustriale che era di circa 278 parti per milione (ppm) ad oltre 391 ppm al settembre 2012; che la presente concentrazione di anidride carbonica è la più alta che sia mai stata registrata dalle evidenze paleoclimatiche e geologiche rilevate negli ultimi 15 milioni di anni; che le emissioni di anidride carbonica sono ad oggi di 35 miliardi di tonnellate l’anno e potrebbero diventare, se non si agisce rapidamente, 41 miliardi di tonnellate entro il 2020; che la temperatura media globale della superficie terrestre è incrementata di 0.8°C dai livelli preindustriali ad oggi.

Il cambiamento climatico indotto dall’intervento umano dal 1960 ad oggi, ha intensificato la frequenza e l’intensità delle ondate di calore e ne ha esacerbato gli effetti. In diverse regioni del mondo le precipitazioni estreme e la siccità si sono incrementate in intensità e frequenza. Le osservazioni hanno indicato una crescita di almeno 10 volte della quota di superficie del pianeta che è stata interessata da situazioni di temperature elevate sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

Il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Unep) nel suo terzo ed ultimo rapporto sulle emissioni intitolato  “The Third Emission Gap Report 2012” lancia un forte allarme sulle emissioni che continuano ad incrementare mentre gli impegni che i governi hanno sin qui preso per contrastare i cambiamenti climatici sono troppo modesti e non consentiranno di impedire un innalzamento della temperatura media della superficie terrestre che potrebbe raggiungere i 5°C entro questo secolo con effetti devastanti per la civiltà umana.

Il rapporto mostra chiaramente che se non si intraprendono ora delle azioni decisive, il mondo si avvia verso cambiamenti climatici molto pericolosi. Possiamo ancora farcela, se ci impegniamo subito per fermare la deforestazione e creare un futuro basato su risparmio, efficienza energetica e fonti rinnovabili. Il gap infatti, come ben sappiamo, non né tecnico, né economico: purtroppo riguarda la mancanza di volontà politica e di leadership.

Stando al rapporto dell’Unep, per avere una possibilità verosimile di mantenere l’aumento del riscaldamento globale sotto i 2°C rispetto all’era preindustriale, entro il 2020 le emissioni globali devono essere ridotte intorno una media di 44 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente, molto meglio se di meno, obiettivo che è ben al di sotto dei livelli correnti. Infatti il rapporto ci conferma che gli attuali impegni dei vari paesi difficilmente ci faranno raggiungere questo risultato; infatti anche se gli impegni attuali più ambiziosi dei Governi fossero pienamente realizzati, le emissioni supererebbero il limite di 44 miliardi sopra citato di almeno 8 miliardi di tonnellate, un valore quasi equivalente alle emissioni annuali degli Stati Uniti.

E in pratica il gap potrebbe essere ben superiore, fino a 11/13 miliardi di tonnellate, a causa di impegni deboli e gravi lacune e scappatoie nei target di riduzione dei Paesi industrializzati.

Anche nei due rapporti precedenti, quelli del 2010 e del 2011, l’Unep sottolinea che possiamo arrivare a colmare il gap entro il 2020 e mantenere i livelli di riscaldamento globale tra 1,5 e 2° C di incremento rispetto alla temperatura media della superficie terrestre in epoca preindustriale, puntando sull’efficienza energetica, promuovendo le energie rinnovabili, riducendo la deforestazione e migliorando le pratiche agricole; un aiuto importante può arrivare dalla riduzione delle emissioni da parte del trasporto marittimo e aereo internazionale, attualmente non regolamentate e che devono essere presenti nelle trattative negoziali.

In questa situazione il 5 dicembre prossimo presso il Parlamento Europeo il Club di Roma presenta il suo nuovo interessante rapporto dal titolo “Bankrupting Nature: Denying our Planetary Boundaries” di Anders Wijkman e Johan Rockstrom, edito da Routledge Earthscan.

Si tratta di un blue print mirato a dimostrare l’importanza di un radicale cambiamento del sistema economico che deve orma assolutamente connettere la dimensione ecologica a quella economica, l’unica strada percorribile per il nostro futuro. E’ ormai indispensabile indirizzare l’economia per tornare a seguire i processi circolari che sono prassi corrente nei sistemi naturali, dove non esiste il rifiuto, lo scarto, l’inquinamento, per giungere ad un significativo disaccoppiamento tra l’uso delle risorse e il raggiungimento del benessere umano (ridurre significativamente l’input delle materie prime e dell’energia nella produzione di beni e servizi), assegnare un valore al capitale naturale e tenere chiaramente visibile nelle contabilità nazionali il deprezzamento delle risorse terrestri e la perdita della biodiversità.

Anche la presentazione di questo rapporto rientra in un’ampia campagna lanciata dal Club di Roma dall’inizio del 2012, dal titolo “2052: the world in 40 years” mirata a stimolare idee sulle opzioni del nostro futuro da condividere in una maniera sostenibile, partita con il lancio lo scorso maggio del volume di Jorgen Randers “2052”, il rapporto a quarant’anni dalla pubblicazione del famoso “The Limits to Growth” del 1972  del quale abbiamo già scritto in questa rubrica.

I due autori di quest’ultimo rapporto sono, come già ricordato, Anders Wijkman che è senior advisor dello Stockholm Environment Institute e co-presidente del Club di Roma, è stato membro del Parlamento europeo e Policy Director dell’Undp (United Nations Development Programme, il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite)  e Johan Rockstrom che ormai dovrebbe essere un nome ben noto ai lettori di questa rubrica perché più volte ho scritto circa le sue ricerche, importantissime per la scienza della sostenibilità. E’ direttore del mitico Stockholm Resilience Center, professore di gestione delle risorse naturali all’Università di Stoccolma e co presidente del grande programma di ricerca internazionale sulla sostenibilità globale, Future Earth, dell’International Council for Science (ICSU) e dell’Earth System Science Partnership (Essp) ed è l’autore principale della riflessione scientifica sui Planetary Boundaries (i confini planetari) indicati dal mondo scientifico dei quali ho scritto a lungo nelle pagine di questa rubrica e dei quali si parla a lungo in questo rapporto.

Per il cambiamento climatico il confine planetario (il limite cioè che la conoscenza scientifica suggerisce vivamente di non sorpassare) riguarda sia la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera (calcolata in parti per milione di volume -ppm -) che il cambiamento del forcing radiativo, cioè per dirla in maniera molto semplice la differenza tra quanta energia “entra” e quanta “esce” dall’atmosfera (calcolato in watt per metro quadro). Per la concentrazione di anidride carbonica nel periodo pre industriale, eravamo a 280 ppm, oggi siamo a 391 e dovremmo scendere, come obiettivo,  al confine già superato di 350 (immaginatevi la portata della sfida di questo limite che, tra l’altro, non è oggetto di discussione nelle Conferenze delle Parti della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, dove si parla di percentuali di riduzioni di emissioni di gas climalteranti che porterebbero a concentrazioni di CO2 nella composizione chimica dell’atmosfera ben superiori alle 350 ppm indicate).  Per quanto riguarda il forcing radiativo in era preindustriale è stato calcolato uguale allo zero, mentre oggi viene valutato intorno a 1.5 watt per metro quadro, il confine planetario accettabile viene indicato dagli studiosi a 1 watt per metro quadro.

Un altro rapporto del Club di Roma interessante e stimolante, ulteriore stimolo ricco di contenuti per costruire rapidamente un futuro diverso per tutti.

I confini planetari del cambiamento climatico da non oltrepassare.

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