E’ iniziata la caccia, ai rifugiati


La notizia dell’ accordo con la Libia è stato dato con la sordina dentro la tromba. Vorrei quindi proporre due commenti di misura ben diversa, il primo di Furio Colombo che risponde nella sua rubrica di lettere al Il Fatto Quotidiano, il secondo un vero articolo, ma come al solito assai denso, di Guido Viale nel suo blog presso L’Huffington Post italiano.

Se il primo accenna al cinismo della politica ufficiale italiana, dalla Lega al Pd, il secondo non risparmia critiche anche ai movimenti e alle politiche alternative potenziali, decrescita compresa. Ma – concludo io – da lì deve passare il cambiamento necessario. Critiche alle politiche liberiste e oggi anche xenofobe, alle distruzioni ambientali intrecciate alle ingiustizie sociali, hanno bisogno della coscienza individuale già pronta ed attiva, ma devono risolversi in un progetto ed in un’organizzazione. Meglio prima che dopo. E intanto in questi giorni possiamo seguire cosa sta facendo Podemos in Spagna.

(Come sempre, grassetto ed evidenziazioni sono miei.)
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È iniziata la caccia italiana ai rifugiati. Salvini esulta
di 
Caro Furio Colombo, finalmente domenica 5 febbraio 2017 non ci sono stati sbarchi. D’ora in poi, lavoro agli italiani, 35 euro al giorno agli italiani, case agli italiani. A occhio direi che, sia pure con l’espediente di una mattanza a pagamento, abbiamo fatto felici un bel po’ di xenofobi.
Mirella
Infatti è entrato finalmente in vigore il patto Gentiloni per liberare l’Italia dal disturbo dell’immigrazione. Si fa così. Primo, si firma un accordo con un governo che non c’è, che non ha polizia né esercito né un Parlamento per ratificare.
Parliamo di quel pover’uomo di Tripoli a cui hanno fatto lo scherzo di dichiararlo “governo di unità nazionale”.
Secondo, si fa finta che questo privato e introverso cittadino di Tripoli (per la verità nascosto su una nave) abbia una Marina militare o almeno una Guardia costiera, donando per la seconda volta (ricordate? La prima volta era stato Maroni a donare motovedette anti immigrati, ai tempi del trattato con Gheddafi) una flotta italiana.
Terzo, la flotta italiana con a bordo libici armati, travestiti con divise prestate dal potente alleato italiano intercetta i gommoni appena messi in mare (in modo che i disperati abbiano già pagato il passaggio) e li porta in un apposito lager senza regole, senza leggi, senza garanzie, senza protezione. Non parliamo, per non essere futili, di medici e di avvocati, che del resto non avrebbero trovato neppure nei Cie italiani.
Non so perché ci abbiano far voluto vedere, in alcuni telegiornali, le immagini di gruppi di materiale umano catturato. Tutto quello che si capisce è che i mercanti di carne umana fai da te sono stati sostituiti da mercanti di carne umana in finta divisa. Questa volta paga l’Italia, e i cittadini ansiosi per il destino del nostro Paese, come Zaia e il segretario della Lega Nord, possono trarre un respiro di sollievo.
Saremmo giudicati dalla storia come i tedeschi, ansiosi collaboratori della Shoah. Ma almeno abbiamo messo insieme i voti che servono per governare alla Trump. E qui non ci sono cittadini che invadono le strade, non ci sono (non una) città-santuario come in America.
Quanto a Minniti, Gentiloni e la Mogherini, la Lega ringrazia. Un po’ meno, c’è da pensare, i cittadini che votavano Pd credendolo un partito con molti difetti ma non incline al delitto.
Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2017

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Trump è già tra noi
di Guido Viale
Trump è già tra noi. L’accordo che il governo italiano ha siglato con la Libia per trattenere là, schiavizzati, rapinati, massacrati e stuprate, profughe e profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa è sicuramente peggio del muro che Trump ha promesso di costruire a spese del Messico. Non solo.
L’elezione e le prime mosse di Trump hanno accelerato lo smottamento anche di una parte consistente della cosiddetta sinistra verso il “sovranismo”: uscire dall’euro, uscire dall’Unione Europea, battere moneta nazionale, svalutare per recuperare competitività, innalzare barriere doganali, richiamare in “patria” le produzioni delocalizzate, rilanciare così la “crescita”. Sono misure popolari, si dice, antiliberiste, con le quali Trump ha intercettato e le destre europee stanno intercettando il voto della classe operaia che noi abbiamo perso.
Sfugge innanzitutto a molti la contraddittorietà di queste misure: soprattutto per un’economia fragile e marginale come quella italiana. A rimetterci, come sempre, sarebbero i salari e l’occupazione nazionali. Ma sullo sfondo di quelle ricette aleggia, sottaciuto, il clou delle politiche delle destre a cui si vorrebbe contenderne l’esclusiva di quelle misure: scoraggiare, frenare, fermare l’arrivo di profughi e migranti; fare o lasciar credere che disoccupazione, precarietà, perdita di reddito e di sicurezza sono provocate non dal dominio della grande finanza e dei suoi interessi, ma dall’arrivo di profughi e migranti; ristabilire le dinamiche di un tempo (il modello è make America great again) bloccando quei flussi.
Perché – lo insegnano sia Trump che il nazionalismo che avanza in Europa – le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista. Prospettata per il nostro paese, poi, l’idea di “chiudere le frontiere” è un’idiozia grottesca. Ai profughi e ai migranti le frontiere tra l’Italia e il resto d’Europa, come quelle della Grecia, sono già state chiuse, mentre quelle tra Italia e i paesi di provenienza dei profughi (8.000 chilometri di costa) sono e resteranno aperte, perché lì i muri di Trump e Orban non si possono costruire.
L’idea di mobilitare una force de frappe italiana o europea per creare in mare una barriera armata anti-profughi (la missione Sofia) invece di mettere al centro delle politiche europee l’abolizione della convenzione di Dublino – che obbliga i profughi a restare nel paese di sbarco e questo a provvedere alla loro sistemazione o al loro “rimpatrio” – è pari solo alla pretesa di estendere l’infame quanto precario accordo con la Turchia, che ha temporaneamente bloccato l’afflusso di profughi in Grecia, ai paesi della sponda sud del Mediterraneo; o addirittura a quelli, più a sud ancora, di origine o transito di quei flussi.
Cioè a governi che non ci sono o che governano nell’illegalità conclamata, che lucrano sul traffico dei profughi ben più di quanto li possa compensare un contributo economico dell’Italia o dell’Europa (la paga dei carcerieri); senza mettere nel conto la violenza a cui sottopongono le loro vittime.
I governi dell’Unione Europea stanno adottando nei fatti le ricette propugnate dalle destre xenofobe e razziste; anche perché il sovranismo di queste è perfettamente compatibile, per lo meno sul breve periodo, con il quadro economico perseguito dai primi. Gli obiettivi di fondo sono gli stessi: crescita del Pil e dei profitti (l’occupazione, come l’intendenza, “seguirà”), riduzione di tasse e spesa pubblica, privatizzazioni un po’ di tutto.
Grande industria e finanza non hanno reagito negativamente all’elezione di Trump: perché, se la globalizzazione “neoliberista” mostra la corda, gli interessi del capitale possono facilmente conciliarsi anche con un bel po’ di sovranismo. Le politiche di tipo keynesiano propugnate dai (pochi) avversari tanto dell’austerità “neoliberista” che del sovranismo nazionalista – spesa pubblica spinta, grandi lavori, rincorsa prezzi-salari, ecc. non funzionano più: sono venute meno le forze che le sostenevano. La grande industria fordista e la classe operaia di fabbrica.
Quelle politiche Obama in parte ha cercato di applicarle; ma se il Pil ha tenuto, occupazione (vera) e redditi non ne hanno beneficiato gran che; il senso di precarietà è aumentato; il protagonismo sociale che lo aveva portato alla presidenza è stato soffocato; le guerre hanno continuato a dominare il campo e ad assorbire risorse. Un cocktail che ha lasciato come eredità la vittoria di Trump.
L’alternativa non è “più spesa pubblica” (questa la spinge anche Trump), ma la conversione ecologica; che non è green economy in cerca di profitto e di incentivi statali, ma promozione di decentramento, di una cultura diffusa, di iniziative di base e di partecipazione per cambiare in forme condivise uso delle risorse, stili di vita, produzioni e modo di produrli.
Cose che nessuno dei governi e delle forze politiche in campo sa, può o vuole fare; e che per una lunga fase potranno svilupparsi solo dal basso, attraverso mille conflitti e a “macchie di leopardo”. Partendo dalle iniziative che già oggi ci sono. Che sono molte; ma disperse nei mille rivoli di lotte e di pratiche scollegate e di riflessioni isolate, perché nessuno ha ancora trovato la strada per farne i mattoni di un nuovo blocco sociale e di una cultura e di un sentire diffusi, prima ancora che di un programma articolato o di un nuovo partito.
Così la giustizia sociale non viene collegata (papa Francesco a parte) a quella ambientale, né la lotta contro le diseguaglianze alla difesa della natura; il programma della decrescita viene prospettato – e a volte eroicamente praticato – senza porsi il problema della conversione ecologica (di cose e produzioni che comunque dovranno continuare a funzionare per molti anni a venire) e questa non è stata capace di confrontarsi in forme organizzate con i tanti punti di crisi occupazionale e ambientale in atto.
Un’incapacità che la accomuna al territorialismo, unica alternativa praticabile tanto a un protezionismo becero che a un “liberismo” eslege. L’accoglienza – vero baluardo europeista e internazionalista contro il montante razzismo – non sa farsi programma di inclusione sociale e di valorizzazione dell’umanità e della ricchezza culturale delle tante comunità di profughi e migranti presenti in Europa; mentre la lotta per la pace e contro il terrorismo non riesce a far leva su quelle comunità per prospettare soluzioni di pace e di rigenerazione economica, sociale e ambientale nei loro paesi di origine.
E si potrebbe continuare. Nella (strato)sfera politica si fa continuo riferimento a movimenti, lotte, riflessioni e mobilitazioni; ma non si riuscirà a cumularne e moltiplicarne le forze senza imboccare con umiltà un cammino che cerchi di svilupparne le potenzialità politiche a partire dalle specificità in cui ciascuna di esse è impegnata. Cosa difficilissima, resa ancora più ardua da una sacrosanta diffidenza nei confronti della monotona vacuità che circonda il mondo politico che a esse pretende di fare riferimento.
L’Huffington Post, 7 febbraio 2017

 

 

 

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