L’art. 18, per finire

Piero Bevilacqua ha anticipato su Eddyburg il suo articolo di Natale, “Quant’è cristiano licenziare“. Questa è la conclusione:

“Rendere più agevole al capitale l’uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell’Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori. A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese. L’abolizione dell’articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po’ di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione. Se anche nell’animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l’umanità è perduta.”

Si misuri tutta la distanza da quanto scrivono Pietro Ichino e Enrico Moretti oggi su Il Sole 24 Ore, “Il lavoro e i lavori, l’obbligo di cambiare“. Un articolo che pare rivolto soprattutto ai “conservatori del Pd”. Questa è la conclusione:

“Quello che è certo è che così il Paese non può crescere. Tirare avanti con una torta più piccola pur di dare piena assicurazione a tutti ha dei costi troppo alti, specialmente per i giovani e i più deboli nella società. Bassa crescita significa che non ci sono occasioni di lavoro per chi cerca un primo impiego, i salari medi sono bassi e nessuno all’estero si fida più a darci il credito che fino ad oggi ci ha consentito di vivere al di sopra delle nostre possibilità reali.”
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