Cosa non ci possiamo permettere

Sul Corriere della Sera, che io leggo online, domenica 18 c’è un’intervista al ministro del Lavoro, Elsa Fornero, 63 anni, torinese, il robot che piange in pubblico pensando ai sacrifici che sta per infliggere. Ad un certo punto il giornalista chiede:

Ma con questa crisi, anche occupazionale, ha senso tenere le persone al lavoro, in prospettiva, fino a 70 anni?
«Siamo tutti concentrati sulla contingenza, ma questa è una riforma strutturale. Per funzionare ha bisogno di un sistema in crescita. Non ci possiamo permettere la stagnazione e tantomeno la recessione. Il punto è: il lavoro è ciò che ti dà la pensione. Un buon lavoro ti dà una buona pensione. Il messaggio è: non vi stiamo tagliando la pensione – al netto del blocco della perequazione dovuto all’impegno al pareggio di bilancio nel 2013 – ma vi stiamo chiedendo di lavorare di più, perché questo vi premia».

Qui probabilmente c’è tutta la filosofia politica e la politica economica del governo Monti. Il ministro dice che la riforma strutturale ha senso in un sistema di crescita (che non c’è) e che una buona pensione è data da un buon lavoro (che non c’è). Tutto si fonda su qualcosa che non c’è.

Noi invece quello che non possiamo permetterci è proprio un ministro-robot che ci dà qualcosa che non c’è e non ci sarà, perché la crescita è un mito occidentale caduto e il lavoro qualcosa che se in parte è già cambiato, non va aumentato o allungato come periodo, ma redistribuito.

Per noi ci sono due cose certe. La prima è che dobbiamo ridurre i consumi di energia, individuali e collettivi. La seconda è che possiamo ridurre il tempo individuale di lavoro. Consumare meno e lavorare meno, ma tutti. Pazienza se questo ci porta a non avere la cosiddetta crescita, anzi, forse sarà meglio. La chiameremo decrescita, senza paura, anzi felici.

(Non ignoriamo che questo governo sta lavorando per la cosiddetta crescita e sappiamo che per questo ci preparerà altri sacrifici. Siamo pronti.)

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3 risposte a Cosa non ci possiamo permettere

  1. Adriano Zanon scrive:

    Vorrei correggermi e segnalare che siamo già in recessione. Per evitare contestazioni mi rifaccio a Il Sole 24 Ore che riporta i commenti esteri. Il Financial Times scrive che secondo la Confindustria il calo del Pil nel 2012 sarà dell’1,6%.

    Eppure non c’è giorno, anzi ora, che non si senta un politico (soprattutto pd) o un economista (povero chierichetto) affermare che il problema è la crescita. Già, proprio così. Nell’antichità era il fato, per san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) era la provvidenza, oggi è la crescita. Ci salverà la crescita. Non c’è alcun dubbio.

  2. Adriano Zanon scrive:

    Si può facilmente intuire che una manovra che (dopo altre) taglia il potere d’acquisto dei cittadini e delle famiglie può avere un impatto assai negativo sull’intera economia nazionale. Quale impatto? Secondo Sergio De Nardis su lavoce.info, da -2,3 a -8,2% in tre anni. Dunque, non serve essere teorici della decrescita per progettarla.

    Monti parla sempre di “rigore, sviluppo/crescita, equità”, una formula trinitaria. La trinità è fondamentale per la mente umana, perché tre punti stanno su un solo piano (mentre con quattro gambe un tavolo può ballare). Ma qui qualcosa manca e per due punti passano infiniti piani. Sappiamo cosa non c’è. Forse nessun punto.

  3. Aldo Manuzio scrive:

    Susanna Camusso sulla de/crescita non ti segue ma sul lavoro non molla l’osso…

    «Io sono per continuare la mobilitazione. Non finisce qui. Contesto che si possa pensare che ci siano lavori che si possono fare fino a 70 anni. Fornero scenda dalla cattedra: se la immagina una sala operatoria con infermieri settantenni? Si rende conto che c’è gente che si fa un mazzo così e non può farselo più nemmeno a 66 anni? Mica sono tutti banchieri. Invece, trattiamo la gente che va in pensione dopo 42 anni come se fossero dei profittatori mentre c’è a chi basta una legislatura. (…) Se facciamo un’analisi della realtà, vediamo che la precarietà c’è soprattutto dove non si applica l’articolo 18, nelle piccole aziende. Quindi tutta questa discussione è fondata su un presupposto falso. Vogliamo combattere la precarietà? Si rialzi l’obbligo scolastico, si punti sull’apprendistato e si cancellino le 52 forme contrattuali atipiche. (…) Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l’articolo 18?».

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